Non c’è persona della mia generazione che non conosca o non sappia a memoria la poesia di Guido Gozzano, la Notte Santa: “Consolati, Maria, del tuo pellegrinare! / Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei. / Presso quell’osteria potremo riposare, / ché troppo stanco sono e troppa stanca sei. // Il campanile scocca / lentamente le sei…”. Poi, il canto finale: “ È nato il Sovrano Bambino. / La notte, che già fu sì buia, / risplende d’un astro divino. / Orsù, cornamuse, più gaie / suonate; squillate, campane! / Venite, pastori e massaie, / o genti vicine e lontane!” (Guido Gozzano, La Notte Santa).
Giuseppe Tontodonati (Scafa 1917 – Bologna 1989), agli esordi della propria produzione poetica, in una poesia in lingua italiana sviluppa lo stesso contenuto. Il testo è diviso in quattro parti: Annunciazione, Betlemme, Mezzanotte e Preghiera. La seconda parte, la più lunga, di undici strofe, si avvicina molto al testo di Guido Gozzano ma con una musicalità diversa e con la rima baciata: “Fa freddo fuori e Giuseppe e Maria, / vanno cercando alloggio in ogni via, / ma tutti gli rispondon desolati: / abbiamo pellegrini già alloggiati; // A Betlemme c’è folla questa sera / ed ogni casa ha gente forestiera; / e se cercate in giro pure un miglio / non troverete un letto né un giaciglio” (Giuseppe Tontodonati, La lieta Novella, pp. 28- 29, in Poesie inedite di Giuseppe Tontodonati, di Vittoriano Esposito, Collana di Studi Abruzzesi, Nuova serie 16, 1972).
Altri versi della poesia: “Giuseppe, che confida nel Signore, / va oltre, bussa e chiede con amore: / buon oste, la mia sposa, poverina, / da molti giorni già con me cammina; // Ora è stanca e vorrebbe riposare, / poco dopo un frugale desinare; / dateci alloggio sotto il vostro tetto, / sarete dal Signore benedetto. // Rispose l’oste: qui più nulla avanza, / ho gente dappertutto, in ogni stanza; / e già è piena tutta la locanda” (Ibidem).
Giuseppe e Maria cercano invano un alloggio dove poter riposare. Scende ormai la sera ma non disperano: “E innalzano al Signore una preghiera, / mentre col manto li copria la sera. / La notte s’addensava cupa e greve, / e qualche fiocco discendea di neve”. Si inoltrano nella campagna e trovano una stalla di pastori. Decidono di fermarsi: “Staremo nell’alloggio poverello / in compagnia d’un bue e un asinello, / ma è meglio che sostare in sulla via / per questa notte, o Verginella mia!”. Arriva la mezzanotte e i versi di Gozzano, “È nato, è nato il sovrano Bambino. / La notte, che già fu sì buia, / risplende d’un astro divino”, diventano nella poesia di Tontodonati: “S’illumina la grotta / di vivido splendore, / è nato il Redentore: alleluia, alleluia!”.
Viviamo nella precarietà più assoluta, causa la pandemia in atto. Il Natale di questo anno sarà diverso dagli altri anni. È umanamente impossibile far festa con i tanti, troppi morti, caduti nella case di riposo e negli ospedali. Dobbiamo forse ritornare all’essenzialità delle cose. La poesia, unita alla preghiera, ci deve essere di aiuto. Il Natale veniva anche negli anni di guerra. Nel 1916 Giuseppe Ungaretti si trova a Napoli in casa di amici, lontano dalla trincea, in un periodo di licenza militare. Scrive una poesia disadorna, priva di punteggiatura ma superba nel contenuto: “Non ho voglia / di tuffarmi / in un gomitolo / di strade // Ho tanta / stanchezza / sulle spalle // Lasciatemi così / come una / cosa / posata / in un / angolo / e dimenticata // Qui / non si sente / altro / che il caldo buono // Sto / con le quattro / capriole / di fumo / del focolare” (Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, 2009). Il gomitolo di strade richiama i cunicoli delle trincee.
“Si vegliava sui monti. Erano pochi / pastori che vegliavano sui monti / di Giuda. Quasi spenti erano i fuochi”. Sono i primi tre versi della poesia “In Oriente”, un poemetto di quattro stanze con terzine dantesche e versi endecasillabi. Tra le poesie scritte da Giovanni Pascoli, forse è la più bella. Non spaventi la lunghezza. Tutto il poemetto si potrebbe dividere in tre parti o tempi e un brevissimo epilogo di un solo verso. Nella prima parte i pastori con i loro canti raccontano la fatica di vivere e l’angoscia di dover morire. Due pastori prestano le proprie voci anche agli altri: Maath e Addì.
Il primo esprime la pena di un vivere che sembra senza scopo: “O Dio, noi siamo come questa greggia / che va e va, né posso dir che arrivi, / nemmen se giunga al pozzo della reggia”. Il canto di Addì è dominato dal pensiero della morte: “Tu, sola tu vivi, / o greggia, che non mai dalle tue strade / vedi la Morte ferma là nei trivi. // Vedo qualche smarrito astro che cade: / muore anche l’astro. Ma tu, pago il cuore, / stai ruminando sotto le rugiade”. Il riferimento al “Canto Notturno di un pastore errante nell’Asia” di Giacomo Leopardi è molto forte.
Nella seconda parte del poemetto, l’annuncio dell’angelo sembra appagare l’ansia dei cuori: “E un canto invase allora i cieli: Pace / sopra la terra! / E i fuochi quasi spenti / arsero, e desta scintillò la brace”. Il cuore sobbalza di gioia. Tutti i pastori muovono verso Betlemme per vedere “il Grande che non muore”. Trovano il Bambino Gesù. “Esso giacea nel fieno / del presepe, e sua madre, una straniera, / sopra la paglia / … Nella capanna povera le sue / lacrime sorridea sopra il suo nato, / su cui fiatava un asino ed un bue” (Giovanni Pascoli, In Oriente, Poemi conviviali).
Nella terza parte il dubbio risorge di fronte a quel Dio che morirà. La ragione respinge la fede. Il dramma si ricompone nell’ultimo verso che è l’epilogo di tutto il poemetto. Sono le ragioni del cuore a prevalere: “Noi cercavamo Quei che vive… – entrato / disse Maath. Ed ella con un pio / dubbio: il mio Figlio vive per quel fiato / Quei che non muore… – Ed ella: il figlio mio / morrà (disse, e piangeva su l’agnello / suo tremebondo) in una croce… – Dio // Rispose all’uomo l’Universo: È quello!”. La voce dell’universo, solenne e autorevole sembra concludere il dramma alla luce della fede, ma in realtà non elimina le cause profonde di un’alternativa sempre aperta. Nascita, morte e risurrezione sono unite. In un verso è raccolta tutta la storia della salvezza.
“Maranathà, Maranathà, / vieni, vieni Signore Gesù. // Il mondo attende la luce del tuo volto, / le sue strade con solo oscurità; / rischiara i cuori di chi ti cerca, / di chi è in cammino incontro a te. // Maranathà, Maranathà, / vieni, vieni Signore Gesù // Vieni per l’uomo / che cerca la sua strada, / per chi soffre, per chi non ama più, / per chi non spera, / per chi è perduto e trova il buio / attorno a sé. // Maranathà, Maranathà, / vieni, vieni Signore Gesù // Tu ti sei fatto compagno nel cammino, / ci conduci nel buio insieme a te, / tu pellegrino sei per amore, / mentre cammini accanto a noi. // Maranathà, Maranathà, / vieni, vieni Signore Gesù” (Marco Frisina). È un canto che ci sta accompagnando in queste domeniche di Avvento durante le celebrazioni. •
Il poeta Giuseppe Tontodonati: Nasce a Scafa – San Valentino (PE), il due febbraio 1917. Allo scoppio della seconda guerra mondiale parte per il fronte greco – albanese. Dopo l’armistizio (8 settembre 1943) è deportato in Germania. Ritorna a Pescara nel 1945. Nel 1959 si trasferisce per motivi di lavoro a Bologna, dove vive assieme alla propria famiglia fino alla morte (6 gennaio 1989). A Bologna fonda il Centro Internazionale delle Arti (CIDA), uno dei poli culturali più attivi della città dal 1973 al 1985. Pubblica nell’ordine: Storie Paesane, 1968, Dommusé, 1974, Le Scafe, 1976, Canzoni Abruzzesi, 1979, Storie Paesane, 1979, Terra lundane, 1980, Rapsodia – il Guerriero di Capestrano, 1982, Sa’ Mmaldine, 1983. Altre notizie nel sito www.giuseppetontodonati.it