Il significato della parola cura per chi è in carcere.
Prendersi cura è l’azione di un cuore paterno-materno, caldo, partecipe, differente perché non indifferente. È il verbo di un cuore che sa accorgersi (ascoltare/vedere son nella radice ku-kav) e si muove a compassione. In una parola, è l’agire della misericordia. Per Papa Francesco promuovere la cultura della cura è la via per rimanere umani nella crisi e uscirne rinnovati. L’oggetto della cura? L’intero mondo delle relazioni (compresa quella con Dio e il Creato), ma in particolare ogni persona, semplicemente perché tale.
«La cura come promozione della dignità e dei diritti della persona» è il primo di 4 princìpi che il Papa offre come bussola per imprimere al mondo «una rotta pienamente umana».
Per noi qui a Fermo tale bussola cerca di puntare verso delle mura al di là delle quali è difficile accorgersi e vedere: quelle della Casa di Reclusione. Chi c’è al di là? Delinquenti? Gentaglia, identificata col reato, che deve pagare e soffrire? Ci sono persone e se ne ascoltassimo la storia li sentiremmo fratelli, perché la fragilità e le illusioni che li hanno portati a commettere reati ci sono in realtà familiari. Uomini che in questo momento sono isolati da quella rete di relazioni che dà senso a una vita, preoccupati per la famiglia, l’attività, in un piccolo mondo che non sempre ha i mezzi – in particolare in questa pandemia – per offrire stimoli di crescita umana.
Sono Cappellano del Carcere da troppo poco tempo per sapere cosa fare. Per adesso cerco di “accorgermi”.
«Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere» dice Dio in Eb13,32. Allora cerco di imparare da loro che significa prendersi cura. C’è un detenuto che ha fatto sì di avere in cella i 3 più anziani, per accudirli e volergli bene. Ce n’è un altro che si è proposto di offrire un piccolo frigo per ogni cella. C’è chi cerca casa a un altro sta per uscire. In loro c’è cura, perché si sentono fratelli. Cominciamo anche noi a sentirli tali e la fantasia dell’amore svelerà cosa possiamo fare. •
Fra Andrea Patanè, Cappellano del carcere di Fermo