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“Mossi dalla speranza”, la Strenna 2021 dei Salesiani

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Incontri on-line sul tema della fragilità e sulla necessità di riconoscersi nel dolore dell’altro. Gioia e perseveranza come antidoti alla disperazione di questo tempo presente.

“Mossi dalla speranza: ‘Ecco io faccio nuove tutte le cose”.

Il titolo dell’articolo è lo stesso della strenna 2021, donata a tutta la Famiglia Salesiana dal Rettor Maggiore don Angel Fernández Artime, decimo successore di San Giovanni Bosco, alla guida della Congregazione Salesiana. Impossibilitati ad incontri in presenza, si ricorre alle video conferenze on line, come è stato organizzato dai Salesiani di Terni, che hanno messo su YouTube l’incontro con don Francesco Marcoccio, vicario dell’ispettore dell’Italia Centrale e delegato della Famiglia Salesiana.
Vero globetrotter don Francesco. Sabato 30 gennaio alle 19,30 era a Civitanova Marche, nella chiesa di Maria Ausiliatrice, per la concelebrazione con tutti i sacerdoti della casa salesiana, con la presenza dei Salesiani Cooperatori, degli Ex Allievi don Bosco, dell’A.D.M.A. (Associazione Devoti di Maria Ausiliatrice), per il rinnovo delle loro promesse.
Domenica 31 gennaio era a Roma, ospite della trasmissione televisiva “A Sua Immagine”, assieme a Flavio Insinna, il don Bosco del film dedicato al santo torinese.
Bello il video ad introduzione della strenna, messo su YouTube dai Salesiani di Terni. Oggi viviamo tutti come dentro una bolla. Il villaggio globale non esiste più, ma tanti piccoli villaggi, ognuno con le proprie difficoltà, acuite dalla pandemia in atto. Noi siamo stati voluti da Dio che è la nostra speranza. Dobbiamo essere la mano capace di trasformare ogni cosa. L’individualismo va trasformato in solidarietà operosa. Tanti sono i nuovi poveri. Hanno fame di pane ma anche di cultura, di integrazione e di inclusione.
Dobbiamo essere capaci di trasformare l’isolamento in opportunità. Dalla divisione all’unità, dal pessimismo alla fiducia e alla speranza. Dal vuoto all’orizzonte della trascendenza. Dobbiamo essere in grado di raccontarlo al mondo. Dio ci parla attraverso persone di primavera. Anche don Bosco sperimentò nella propria vita, tragedie e dolori, ma seppe sempre guardare oltre.
In questo tempo di pandemia stiamo imparando che nessuno si salva da solo. Dio ci ama profondamente. Un mondo senza Dio è un mondo privo di speranza. Questa si alimenta con la preghiera. Se nella doppia crisi più grande, che stiamo attraversando, quella sanitaria ed economica, abbiamo perso tante false sicurezze del passato, dobbiamo essere capaci di creare unità. Solo le persone care, che non sono più con noi, perché vittime del Covid 19, devono essere il nostro punto di riferimento.
È per loro che dobbiamo illuminare insieme il mondo, quello in cui viviamo. Ci sono immagini dell’anno appena trascorso che rimarranno per sempre nella memoria di tutti. I camion militari a Bergamo trasportano le bare fuori città. Papa Francesco prega da solo davanti al crocefisso ligneo in una Roma sferzata dalla pioggia. L’infermiera cade dal sonno sulla tastiera del computer, dopo il proprio turno di lavoro nelle corsie dell’ospedale.
Sono cinque i paragrafi della strenna: la spiegazione del versetto biblico (Apocalisse 21,5), il magistero di Papa Francesco sulla pandemia (Fratelli Tutti, vv. 32 – 36), saper dimorare le domande, l’identità della speranza, impegnarsi a rinnovare ogni cosa. Tutto l’Apocalisse va diviso in due parti. Nella prima parte, l’Epifania del Cristo Pasquale rimanda ai messaggi rivolti alle sette chiese dell’Asia minore perseguitate perché seguono Cristo.
Nella seconda parte, la rivelazione dell’Agnello, l’intervento medicinale e giudiziale di Dio vengono spiegati con l’apertura dei sigilli, il significato del Rotolo e dell’Agnello, i flagelli contro l’idolatria e la morte della Bestia idolatra. Il numero che ritorna continuamente è il sette, per indicare la perfezione, sette chiese, sette sigilli, sette trombe, sette angeli, sette segni. Al termine di tutto viene il versetto “Ecco, Io faccio nuove tutte le cose”. Dio e Cristo vincono le forze del male. I Cristiani dell’Asia Minore, perseguitati, si chiedevano: Ma dove è Cristo? Fino a quando ci sarà tutto questo?
La pandemia del Covid 19, dice Papa Francesco, ci ha dato la consapevolezza di essere una comunità mondiale che naviga sulla stessa barca, dove il male di uno va a danno di tutti. La tempesta sta smascherando la nostra vulnerabilità. È difficile pensare che questo disastro mondiale non sia in rapporto con il nostro modo di porci rispetto alla realtà, pretendendo di essere padroni assoluti della propria vita e di tutto ciò che esiste. Non voglio dire, che si tratti di un castigo divino ma è anche vero che è la realtà stessa che geme e si ribella (Laudato Si’). Passata la tempesta sanitaria, il rischio peggiore sarebbe quello di cadere in un febbrile consumismo e in nuove forme di auto – protezione egoistica. Dobbiamo scoprire una passione condivisa per una comunità di appartenenza e di solidarietà. Il “Si salvi chi può” sarà peggio della pandemia.
Forse è opportuno e doveroso dimorare nelle domande fondamentali della nostra vita, così da uscirne più sapienti e ricchi di umanità.
La sospensione del tempo, causata dalla pandemia, ha determinato maggiori possibilità di sviluppare riflessioni approfondite, ci ha reso insomma più spirituali nel senso laico del termine. Cosa significa questa nuova normalità? Cosa ne rimarrà? Ci sarà una corsa folle per recuperare il tempo perduto? Sarà solo un brutto incubo? Chi vogliamo essere di fronte a questa realtà che siamo chiamati a vivere? Perderemmo una grande opportunità se non facessimo tesoro di ciò che stiamo vivendo, dolore incluso.
Può essere molto opportuno chiedersi quale deve essere il modo migliore di affrontare il dopo pandemia, e magari scoprire il valore della speranza in un momento in cui la maggior parte delle persone sperimenta la paura o non vede l’ora che arrivi il momento per dimenticare ciò che è successo durante questo anno di tribolazione.
Non possiamo dimenticare quello che è successo, i quasi due milioni di vittime a tutt’oggi, le persone che hanno lavorato in prima linea. Sarebbe la cosa peggiore che potremo fare. Ma di quale speranza parliamo. Cosa ci chiede il Signore e che cosa ci offre? Occorre saper stare nelle domande senza avere fretta di dare le risposte.
Il termine ebraico per indicare la speranza è tiqwàh, la corda rosso scarlatto, che ci viene lanciata dall’alto. Gli ebrei usano termini concreti, non astratti come i greci. La speranza è un qualcosa che si muove. Fonda le sue radici nella fede, fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede. La speranza procede senza vedere, va avanti senza sapere che cosa troverà davvero. “La speranza vede quel che non è ancora e che sarà. Ama quel che non è ancora e che sarà. Non va da sola. Per sperare, bimba mia, bisogna essere molto felici. Delle tre virtù teologali è forse quella più gradita a Dio” (Charles Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù).
Compito del cristiano è impegnarsi a rinnovare ogni cosa e perseverare. Tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio. Se amiamo Dio, anche la pandemia che stiamo affrontando, può diventare un’occasione per diventare migliori. Si deve solo sperare che il confinamento ci aiuti ad aprirci. Fede e speranza devono procedere insieme.
La preghiera è scuola di speranza. Il rinnovamento di ogni cosa deve avvenire, anche attraverso questo periodo di difficoltà e di smarrimento, con un deciso ritorno ai poveri e agli esclusi, riconoscersi nel dolore dell’altro e credere nel progetto del Vangelo. •

 

Il colera morbus non risparmiava nessuno

L’estate del 1854 portò una notizia paurosa: il colera. L’epidemia, che ad intervalli regolari visitava paesi e città, investì dapprima la Liguria, facendo 3000 vittime, il 30- 31 luglio si ebbero i primi casi nella città di Torino. Anche la famiglia reale, presa dalla paura, sloggiò dalla città e si rifugiò nella residenza di Castelletto. Le manifestazioni della malattia erano quelle classiche: vomito e diarrea, disidratazione, sete, violenti crampi muscolari. La morte portava via il 50% dei colpiti, in quanto non era stato trovato nessun antidoto al male causato dalle cattive condizioni igieniche.
La zona di Torino più colpita fu la zona più inquinata e sporca: Borgo Dora, confinante proprio con l’Oratorio di Valdocco. In un mese si registrarono cinquecento morti. Don Bosco prese subito le misure del caso. Vennero anticipati gli esami e prima che finisse luglio, tutte le scuole vennero chiuse. I ragazzi, quelli che volevano, potevano ritornare nelle proprie famiglie. Don Bosco, assieme ad altri sacerdoti, si diede da fare per prestare la propria opera in difesa degli ammalati.
Quattordici giovani dell’oratorio, facendo appello ai più nobili sentimenti, si misero a disposizione per soccorrere chi era nel bisogno.
Dopo qualche giorno si aggiunsero altri trenta giovani. Furono giornate di caldo torrido, con tanta fatica, puzza nauseabonda e pericoli. Giovan Battista Francesia, giovane e piccolo chierico faceva da spola tra Valdocco e il Lazzaretto dove venivano portati gli appestati. Anche sua mamma contrasse il colera ma guarì e rimase in vita altri ventuno anni.
Tra i 44 volontari dell’Oratorio, nessuno fu toccato dal colera.
Un risultato ai limiti del prodigioso. Ma don Bosco non rimase ad aspettare le benemerenze. Un nuovo dramma colpiva la città: gli orfani. Un centinaio erano ammassati nel “deposito” di San Domenico. Ne prelevò venti e li portò all’Oratorio. La Provvidenza l’avrebbe aiutato anche di fronte a questa nuova emergenza. •
(Teresio Bosco, Don Bosco Storia di un prete, Leumann Editrice, Torino 1987)

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