Può essere vario: anzitutto l’originale aramaico (bar nasha’) può designare “io”; pertanto quando Gesù parla in terza persona indica la prima (quindi quando dice “Il Figlio dell’uomo è venuto a salvare”, vuol dire “Io sono venuto a salvare”). Può indicare la sua umanità con la sua fragilità creaturale, il suo avere un corpo e fisicità di ogni essere umano, come si ripete in Ezechiele; non a caso, Mel Gibson ha privilegiato il vangelo di Marco per il suo film The Passion, dato che scava in modo truculento nelle sofferenze umane di Gesù, a differenza del vangelo più glorioso e luminoso di Giovanni. Più pertinente, però, è senza dubbio il riferimento alla figura del “Figlio dell’Uomo” che troviamo nel cap. 7 del libro di Daniele.
Qui, in una visione apocalittica, cioè di rivelazione ottimistica, non di disastri, si contempla una sequenza di imperi, di cui i primi quattro sono presentati sotto forme mostruose (Babilonia, la Media, la Persia e la Grecia di Alessandro Magno), perché attentano alla vita del popolo eletto ed inquinano l’umanità con la loro sete di potere globalizzante. Poi compare appunto un personaggio “come un figlio d’uomo” (senza articolo: Dn 7,13), figura simbolica del popolo di cui Dio è il re, che sarà il migliore degli altri. All’epoca in cui viene redatto il NT, nella letteratura giudaica extra-biblica (di libri cioè noti, ma non riconosciuti come autoritativi, chiamati anche apocrifi), questo “figlio d’uomo” non è più una figura simbolica, ma un preciso individuo (con l’articolo determinativo) la cui apparizione coincide con il Regno di Dio. Parlando del figlio dell’Uomo (con due articoli determinativi), Gesù aggiunge maestosità, ma anche un alone di mistero al personaggio. In effetti, solo Gesù utilizza questo titolo (unica eccezione è la visione di Stefano che vede i cieli aperti ed il Figlio dell’Uomo in At 7,56) e nessuna professione di fede cristiana lo utilizzerà.
Con tale espressione, Marco segnala la funzione di vittoria di Gesù, ma in particolare il suo ritorno come giudice; Gesù dunque non è un semplice e fallito profeta galileo che muore sulla croce come un delinquente qualsiasi, ma il Figlio dell’Uomo che ha il potere di rimettere i peccati (Mc 2,10), che ha l’autorità di interpretare la legge mosaica e le sue prescrizioni (è il Signore del sabato, 2,28). Tale titolo si concentra significativamente negli annunci della passione e nella volontà di dare la vita per tutti passando per la sofferenza, che l’evangelista esprime in termini di necessità (“deve soffrire” = accetta liberamente di patire, cfr. 8,31; 9,31; 10,33). La croce diventa il passaggio per la Parusia, cioè per l’Avvento glorioso alla fine dei tempi (13,26). Il Figlio dell’Uomo è dunque in Marco l’espressione che condensa nel modo ottimale la speranza dei credenti, che sono invitati a non pensare ad una storia nelle mani del caso, ma misteriosamente salda nelle mani di Dio, che la porta a compimento, tramite il suo Figlio Gesù “davvero Figlio di Dio”, non semplicemente “Cristo/Messia”, come riconoscerà un centurione pagano (15,39).
La duplice domanda è perchè questo titolo Gesù abbia anteposto per sé questo titolo a quello di Messia e perché la tradizione cristiana lo abbia accantonato. La prima risposta nasce dal famoso segreto messianico di Marco; Gesù non voleva svelare prematuramente la sua identità, ma ha parlato di sé in un modo ambivalente, come persona e come il personaggio misterioso di Daniele. La seconda risposta va cercata nel fatto che il cristianesimo delle origini lo usò fin quando la maggioranza delle comunità erano di origine giudaica, per poi in un certo senso sbiadire dinanzi all’afflusso di credenti ellenisti o romani, provenienti dal paganesimo, per essere soppiantato da quello di “Figlio di Dio”, titolo non privo di venatura polemica contro il culto del divus imperator. Concretamente, per noi che oggi leggiamo i testi, la presenza del titolo Figlio dell’Uomo può essere un indizio arcaico che le parole relative appartengano alle parole originarie (ipsissima verba) di Gesù. •
Antonio Nepi