Siamo rimasti fino al 28 gennaio, quando siamo ambedue rientrati in Italia. A Robe sono stato poco tempo. Debbo dire, però, che la permanenza in quel luogo, anche se breve, ha suscitato in me sentimenti contrastanti, ancora oggi confusi, sui quali non riesco ancora a fare sufficiente chiarezza. La cosa dipende, con molta probabilità, dal fatto che so di non essere quello che si suol definire un buon cattolico. Sono, piuttosto, uno di quei cattolici un po’ borderline che fanno fatica a riconoscersi con una chiesa che misura la propria credibilità con il metro della ricchezza, del potere, della propria capacità di influenza. Nessuno si senta offeso! È una mia opinione, indubbiamente parziale, appartenente al mio personalissimo modo di sentire. Inutile dire, quindi, che la motivazione principale della mia partenza per l’Etiopia è stata la profonda e antica amicizia con ho con don Mauro e padre Angelo, e non l’intento di diffondere in Etiopia il cattolicesimo. Da questa mia condizione di cattolico borderline è nata in me l’impressione che anche in terra di missione la nostra chiesa replichi se stessa, anche se in quel contesto islamico, dove i cattolici sono poche decine, è difficile parlare di chiesa potente o influente. Eppure la ricchezza, in mezzo a tanti poveri, appare ancor più stridente, anche se usata per costruire chiese e scuole. In Etiopia ho avuto modo di festeggiare il Natale, che lì ricorre una decina di giorni dopo il nostro. L’ho celebrato insieme a padre Angelo presso la comunità delle Suore Missionarie della Carità, l’ordine fondato da Madre Teresa di Calcutta. Le suore sono state la prima presenza cattolica in questa terra. Sono lì fin dal lontano 1989, quando Madre Teresa condusse un manipolo di Missionarie nella città di Robe, oggi sede della Prefettura. La celebrazione della messa con le persone accolte dalle suore è stata un’esperienza che ha prodotto in me un’emozione che porterò per tutta la vita. Fedeli alla loro missione di occuparsi dei più poveri fra i poveri, le suore accolgono centinaia di persone portatrici di gravi disagi psichici e mentali o di notevoli handicaps fisici. È un’umanità dolente, che mi ha tolto il respiro, e mi ha fatto salire le lacrime agli occhi. Sono soltanto quattro suore, aiutate da numeroso personale laico, a occuparsi con grande dedizione e impegno di quella che le autorità locali considerano probabilmente una sorta di discarica umana, dove dislocare tutte le persone con vicende complicate, di cui nessuno altrimenti si occuperebbe. Destano commozione i tanti bambini che vivono lì, figli di ricoverati, oppure le frotte di bambini affetti da gravi problemi mentali o fisici. Qualche giorno dopo il Natale, accompagnando padre Angelo, che aveva un colloquio con la superiora, ho avuto modo, mentre lo aspettavo, di visitare la missione. È una piccola città in mezzo alla città, delimitata da un chilometrico muro di cinta. Di fronte ai padiglioni maschile e femminile, affacciati su un ampio prato verde ci sono gli alloggi dei bambini e una scuola materna frequentata anche da fanciulli che vengono da fuori. Un po’ in disparte c’è il convento delle suore con la loro cappella privata e un giardino pieno di fiori. Un vasto cortile separa gli alloggi destinati alla foresteria dagli edifici adibiti a servizi: cucine, officina, un piccolo mulino per la macinazione dei cereali. Proseguendo, ho visitato il grande orto delle verdure e un altro ampio cortile dove erano accumulati centinaia di enormi tronchi d’albero che alcuni operai stavano tagliando in pezzi di circa un metro usando delle asce. Rispondendo alla mia curiosità, la superiora mi dice che quella è la scorta di legna di cui hanno bisogno per la cucina e per scaldare l’acqua di uso sanitario. Mi fa sapere anche che sono in possesso di una motosega che però nessuno sa usare. Dato che di mestiere faccio il contadino, e che, con la motosega, ho dimestichezza, il giorno successivo ero lì a spezzare tronchi usando la loro motosega. Debbo dire che era un vero catorcio. Bastava usarla un po’ e si surriscaldava fin quasi a grippare il motore. Occorreva allora aspettare quasi un’ora perché si raffreddasse prima di poterla usare di nuovo. Quel giorno ho combinato ben poco con la legna. Per lo più, nei brevi momenti in cui funzionava, ho dato spettacolo con la mia abilità nell’uso della motosega. Debbo dire, però, di aver avuto modo di trascorrere così la più bella delle mie giornate africane. Ho potuto godere della cordiale ospitalità delle suore, ho pregato con loro l’Ora Media. Conoscere le suore e la loro opera mi ha fatto sentire orgoglioso della mia chiesa cattolica. Esse sovvertono lo stereotipo dei missionari bianchi europei. Sono donne africane (keniote, tanzaniane, nigeriani) e, soprattutto, sorridono nonostante la difficile missione cui si dedicano. Sorridono accoglienti. Un segno, questo, di una vocazione autentica e di una capacità non comune di amare. Sono meravigliose donne di Dio, testimoni autentiche e credibili del messaggio cristiano!! Questi giorni, vedendo in televisioni i cardinali elettori del nuovo Papa, mi sono più volte domandato: “Possibile che dopo 2000 anni di storia della nostra chiesa non ci possa essere in mezzo a loro neanche una di queste donne meravigliose?”. Non pretendo che queste suore divengano cardinali. Vorrei almeno, però, che la loro voce venisse ascoltata. Questa voce era assente nelle discussioni preparatorie in cui i cardinali discutevano dei problemi della Chiesa nelle varie parti del mondo. È una cosa che faccio fatica a capire. Del resto, ho già detto all’inizio, che sono cosciente di non essere un buon cattolico. •
Tulli Pancrazio