La felicità deriva dal sentirsi sicuri, senza paura, nella gioia, anche quando le cose non vanno per il verso giusto. La vita è rinnegamento e croce, è camminare nel deserto e nelle tenebre, ma con una certezza: il tempo passa, ma Dio ci tiene per mano e ci chiede di fidarci di Lui. Questo è il paradosso della vita cristiana: la sofferenza può coesistere con la gioia del cuore, il dolore con la felicità. Come sentire la sua mano così da non aver paura? C’è un modo: la preghiera, un dolce legame con Dio e con gli uomini che crea la comunione e da cui scaturisce la gioia, come dall’ evangelico programma di S. Benedetto che apre le porte alla vita mistica e fraterna: “I monaci esercitino dunque lo zelo buono con l’amore più fervente. Così si prevengano nel rendersi onore a vicenda; portino con immensa pazienza le loro infermità fisiche e morali; si protendano a gara per obbedirsi; nessuno segua ciò che giudica utile a sé, ma piuttosto all’altro; siano protesi in modo puro alla carità verso ogni fratello; nell’amore temano Dio; amino con carità sincera e umile il loro abate; a Cristo non antepongano assolutamente nulla ed egli ci conduca tutti insieme alla vita eterna” (cap. 72).
Un’attenzione, dunque, alla persona nelle piccole cose, capacità di ascolto e aiuto reciproco disinteressato, comprensione, sostegno, libertà dalle varie schiavitù. La vita consacrata, dunque, come segno nel mondo e tra gli uomini di un amore che sazia, disseta, sostiene e dà gioia perché saldamente edificata sulla roccia che è Cristo! Un amore libero che diventa profezia delle cose che non si vedono, ma che si sperano; di un “già e non ancora”; che diventa grido profetico contro le ingiustizie; che mette in risalto l’unica parola, quella di Cristo a fronte dell’inflazione di tante parole vuote e senza spessore; che lubrifica le relazioni con le tre parole-chiave per vivere in pace e gioia: permesso, grazie, scusa. S. Benedetto, vuole che – prima che tramonti il sole – gli animi siano riconciliati, le relazioni fraterne sanate con il reciproco perdono. Allora, anche il Monastero è chiesa in uscita che testimonia con la vita innanzitutto, che accoglie, diventando un ospedale da campo dove curare le ferite e riscaldare il cuore dei fratelli, con la vicinanza, la prossimità; dove c’è un’insegna «Qui si aiuta a portare la croce »; dove – come i barellieri del Vangelo – le monache presentano il “malato” di turno a Gesù nella preghiera, come dice S. Benedetto: “…prima preghino insieme…” (RB 53) cui fa eco il Vangelo di Mc “Ne costituì Dodici – che chiamò apostoli –, perché stessero con Lui” (3,13).
Lo “stare con Lui” è il cuore del Vangelo: da qui si parte per portare la gioia dell’annuncio lungo le periferie della vita. Uscendo lungo le strade della vita, vorremmo chiamare a raccolta tutti e, nel rispetto del carisma monastico benedettino, chiedere: “Cosa vi aspettate da noi monache?”. Non è curiosità, ma un desiderio di crescere insieme come Chiesa per un migliore servizio d’amore! •
Le Monache Benedettine
di Fermo