La Voce delle Marche ospita una voce camerte.
Quando è la terra che hai tanto amato a tradirti e non l’attaccamento ai luoghi. Quando dalle rovine del terremoto passi alla sofferenza delle persone, dalla paura all’incertezza del futuro. Quando non galleggi più nemmeno su una sicurezza da mettere fra le pareti di una casa o da condividere in un’imperterrita dichiarazione d’affetto con i tuoi familiari. E non hai più il calore di un’antologia di vie, piazze, monumenti che nella loro secolare e affascinante concretezza ti rivelavano sempre una storia, un percorso, un tempo.
Quando hai l’impressione di non avere più niente e anche una penna che ti ritrovi in tasca diventa un bene prezioso, è la vita che diventa simile a una disordinata cucina di ristorante: fatiscente, oscura, incasinata, pare quella cucina di Fratta descritta da Ippolito Nievo. Anche se l’accostamento gastronomico è improprio, perché più che le pentole o i paioli qui contano gli inservienti e gli addetti ai lavori, le persone, le loro esistenze precarie, quel caotico frammento di mondo alla rovescia che vi si muove dentro.
La cucina del terremoto, rappresentata dopo le scosse del 24 agosto e quelle successive del 26 e 30 ottobre, è una figurazione scenica, un dramma unico: riunisce in uno stresso luogo e in uno stesso spettacolo diversi tipi umani e ne fa erompere le dinamiche, belle e brutte, delle relazioni umane e sociali: amori, solidarietà, proteste, paure. Chi educato, chi agitato, chi odioso, chi razzista, chi solidale, chi italiano, chi straniero: discutono, litigano, corrono, si mettono in fila. Tutti incroci di vita caotica, animazione, impazienze e slanci che danno la temperatura morale di questo terremoto, attraversato da una sensazione palpabile di dolore, di tragedia che per me è anzitutto di Visso. La città che, come appare all’ingresso e davanti alla sede dei vigili del fuoco e della Croce rossa, ci arriva priva di assetto, dallo sfondo di una storia terribile consumata in una serie di scosse e di crolli, ai margini di una zona rossa, dove la polizia ti ferma, ti caccia, ti rimanda indietro.
Basterebbe questo per lo sconcerto e l’orrore, per dare l’idea di sospensione dalla normalità, ma è altrettanto una testimonianza di altruismo e solidarietà fondata su slancio, passione, cuore. Merito della generosità all’ennesima potenza e di una dedizione che fa onore ai Vigili del fuoco, alla Protezione civile, alla Croce rossa, alle forze dell’ordine, ai soldati della cucina da campo con meriti che tanto più meravigliano e commuovono quanto più mostrano d’essere un risultato di armonizzante collaborazione, competenza, azione in un disegno, appunto, di grande dedizione che ruota intorno alla nostra impreparazione e alla mancanza di un piano preordinato da tempo. Un risultato di umanità, in altri termini.
Senza, credetemi, l’ostentazione dei sentimenti di fronte alla tragedia, di cui il primo atto è narrativo di pericoli scampati, il secondo è esplicativo della mancanza di un piano preordinato, il terzo è visionario: il funerale di Amedeo Tarragoni, cassiere della banca Marche, che ha preferito chiudere gli occhi di fronte a una vita incarcerata dal terremoto; è salito in cielo per portare soldi ai terremotati. E’ vero: ci attende una stagione difficile, ma con traguardi capaci di offrire un balsamo al nostro scontento. Perché una città in difficoltà è anche il luogo da cui ripartire, è il luogo che può insegnare a tutti come considerare la crisi sismica un momento di riflessione prima della rinascita e non l’ultimo rantolo prima della morte. Attorno a questa città, a questo dolore, una serie di mete da raggiungere. Mete da conquistare per una Visso che diventa meravigliosa perché stranamente, nonostante le sue rovine, nonostante il terremoto, nonostante tutto smette di essere Visso e diventa una città che si può solo amare, che si può pensare anche la notte, come dice Giorgio Calabrò.
Una città invasa dalle pietre che cessa di essere terremotata e si trasforma in balsamo per la anime sofferenti. Balsamo, per le infinite combinazioni di iniziative possibili. Una Visso struggente nelle sue fotografie, il cui tratto coglie tutto, anche il minimo dettaglio. Una Visso in cui nulla nasce dal nulla, ma tutto diventa altro. Si fa sentiero, da seguire per poter sperare in un paese rinato. •
C’è ancora speranza fra quelle rovine
Accade per le persone e accade per gli edifici, accade per i monumenti e per le case. Vengono abbattuti e danneggiati dal terremoto, sembra che non ci sia più futuro per loro. Neppure più presente.
Se scatti una fotografia, pare utile solo per una notizia e un rimpianto, per una nostalgia: quante rovine, dici, e quanto è crudele il terremoto che demolisce le opere fragili dell’uomo. Prendete i borghi, le abitazioni, le strade, gli accrocchi di tetti e pareti, gli archi, i balconi, le chiese e i palazzi che vedete in parte nelle immagini. Prendeteli come il riassunto di quel patrimonio distrutto e sfiorito che s’incontra girando i luoghi del sisma, se solo imboccate una via traversa, una piazza, o lanciate semplicemente lo sguardo oltre la barriera della zona rossa, spingendovi magari al di là delle antiche porte di accesso al borgo.
Sono evidenze che restituiscono un’eredità spirituale, qualcosa di paterno e materno. Offrono le immagini della loro anima. Sgualcite, slabbrate, ridotte a ruderi, a scheletro. Permettono al nostro sguardo, affranto e consapevole, di coglierle al di là dello struggimento nostro e della loro intrinseca bellezza. In esse si manifesta qualcosa che è spazio e tempo insieme. Che è storia e non solo arte. Dalle pietre delle chiese di Santa Maria, di Sant’Agostino, di San Francesco, da quelle del Palazzo dei Priori o del Palazzo Melchiorri affiorano avanzi di storie, tracce di umanità viva che ci esortano a una nuova esistenza. Non vogliono essere resti di ciò che abbiamo alle spalle, ma inizio, progetto di ciò che possiamo diventare in futuro.
Edifici pronti a rinascere per accogliere ancora voci, illusioni, speranze e destini. In dote loro portano la nostra memoria e il messaggio che Silvia Cambiaghi mi indirizza da Roma con parole che aprono il cuore. Le propongo a voi come segno di reciproco conforto, diretto a tutti. Caro Valerio, mi accosto con pudore al dolore tuo, della tua famiglia e dei tuoi concittadini per la tragedia che ha travolto Visso.
Desidero comunicarti che il vostro dolore è anche il mio. E’ terribile, infatti, pensare che a tradirvi sia stata la terra tanto amata, che avrebbe avuto tutt’altra funzione: quella di avvolgervi e proteggervi dalle intemperie della vita. Proprio in questa contraddizione voglio vedere un disegno di più ampio respiro. Sarò un’inguaribile ottimista, ma penso che per Visso questo terremoto rappresenti una svolta epocale, una profonda rinascita (…).
Parole di una bellezza che tocca il cuore, come un magnifico suono d’organo. E niente s’attaglia meglio di quel suono alla nostra prostrazione: un mondo perduto, un orizzonte dai contorni indefiniti, rischiarati però da una luce al neon che si chiama speranza. Il regalo cioè di una seconda possibilità, che capita quando non te l’aspetti e credi che sia la fine. Uno stato d’animo nuovo, una malinconia inedita, un urlo, una reazione alla portata di tutti per togliere di mezzo l’angoscia, quello specchio nero che non manda più luce. •
Valerio Franconi, collaboratore de L’Appennino Camerte