L’incarnazione è il luogo dell’assunzione, da parte di Dio, di ogni umana fragilità e sofferenza. Le riflessioni di uno scienziato nel corso della sua malattia
Perchè tanta sofferenza?
Dalla riflessione intellettuale all’esperienza esistenziale. Tutte le riflessioni intellettuali – analizzate nei numeri precedenti – si sono poi dovute confrontare con la realtà di una malattia drammatica: il cancro; un confronto che cambia radicalmente le prospettive. Il cancro è causato da alcune cellule del nostro organismo che cominciano a riprodursi in maniera incontrollata. Quindi ancora una volta ci troviamo di fronte a un errore biologico, ma è sul meccanismo tentativo ed errore che si costruisce l’evoluzione della vita. Una malattia così terribile fa parte della stoffa dell’universo e non può essere attribuita a un peccato delle origini.
Ma come affrontare la malattia? Confesso che la prima reazione non è stata tanto quella del perché a me. Essere creature vuol dire anche essere sottoposti a questi rischi. Sono anch’io una creatura fatta di carne e sangue che evolve con meccanismi che ho anch’io studiato con interesse ed entusiasmo e in cui l’errore ha spazio fondamentale. Quindi la prima reazione è stata di stringere i denti e andare avanti.
E qui veramente mi è stata di aiuto fondamentale mia moglie. Sono i momenti che fanno riscoprire il senso profondo del legame matrimoniale o comunque del legame di coppia. Ma durissimo è stato l’impatto con le sedute della chemioterapia. Mi si è aperto un mondo che non sospettavo e le dimensioni enormi di chi porta con coraggio i segni della sofferenza. In effetti ho trovato tanta solidarietà e tanto coraggio ma anche tanta sofferenza. E bene o male oggi per fortuna le molte terapie antidolore diminuiscono fortemente molti aspetti della sofferenza fisica.
E allora ecco giungere il primo dubbio: questa creazione non è forse fondata su un eccesso di sofferenza? Ve n’era proprio bisogno? Può un Dio pietoso e di misericordia aver creato tutto questo? Non era meglio fare in altro modo o non fare addirittura? Domande dure ma necessarie, non fosse altro per rispetto a un Dio creatore che accetta di confrontarsi con Giobbe.
Qui molto mi ha aiutato toccare con mano la solidarietà di chi aiuta e il coraggio di chi affronta terapie faticose e dolorose. E forse anche la consapevolezza che certe terapie sono permesse dal progresso della scienza: costruire la Terra vuol dire di fatto eliminare lentamente ma con costanza le fonti di sofferenza sia fisica – la malattia – che anche morale: il dramma della fame e dell’ingiustizia. Vedendo la sofferenza portata con grande coraggio, ho toccato con mano che forse possiamo farcela. E mi hanno molto aiutato gli amici che si sono ricordati di me e anche coloro che mi hanno ricordato nella preghiera. È un collegamento forte indubbiamente di grande aiuto. Ma la domanda del perché una creazione con così tanta sofferenza ritorna a pieno. La risposta intellettuale che avevo dato è che un universo – che procede per tentativi ed errori e quindi non rigidamente
deterministico – è l’unico universo che può ospitare la creatura libera capace di alleanza … Ma la risposta intellettuale è sufficiente di fronte all’esperienza esistenziale del dolore? Una cosa mi è sembrata chiara: noi non partecipiamo delle sofferenze di Cristo e la prospettiva che la mia sofferenza sia più accettabile, perché in qualche modo mi fa partecipare delle sofferenze di Cristo, mi lascia terribilmente freddo. È esattamente il contrario: è Dio che, per comprendere l’uomo e aprire definitivamente a un’alleanza che guarda al futuro, soffre con l’uomo.
La sofferenza entra nelle relazioni trinitarie, creando anche per Dio un prima e un dopo. La teologia del dolore di Dio ci fa pensare che Gesù non sia la vittima massima del sacrificio: il Dio di Abramo rifiuta i sacrifici che portano sofferenza come dimostra la storia di Isacco. E dalla croce che il Dio, che nonostante il dolore presente nel mondo continua ad affermare che ci ama e che ci è fratello, acquista credibilità.
Ma vi è anche l’esperienza della solitudine: nonostante la vicinanza di familiari e amici, vi è un momento in cui si è terribilmente soli. Per me questo momento è stato poco prima dell’anestesia generale, in particolare prima dell’ operazione al fegato, lunga e complessa. E ho avuto paura che non mi sarei risvegliato. E allora ho dovuto fare i conti in concreto su che cosa in fondo veramente credevo. Mi sono reso conto che molte delle rappresentazioni di Dio che ci sono state suggerite nella nostra vita sono quelle di un giudice inflessibile il cui unico scopo è la condanna. In alcuni attimi, piuttosto che il padre misericordioso ho visto un giudice che mi fa paura. Anche perché certi criteri di giudizio della Chiesa, almeno fino all’arrivo di Papa Francesco, non hanno per nulla corrisposto ai miei: si sono assolti generali criminali, purché uccidessero anche per i vantaggi della Chiesa, e si sono condannate persone che alla fine di una vita di grandi sofferenze hanno chiesto che queste sofferenze potessero essere abbreviate.
Che Dio trovo? Quel Dio – in molti, troppi, momenti testimoniato anche dalla mia Chiesa cattolica – mi ha fatto paura. Che Dio troverò, dunque? Un Dio che mi condanna perché ho creduto in alcuni valori della creazione, quali ad esempio il valore unitivo della sessualità e non solo a quello procreativo, ho creduto all’ omosessualità come a una diversità da accettare e accogliere e non come un disordine da condannare? Troverò dunque un Dio di misericordia o un Dio di condanna e che oltretutto condanna e assolve con criteri che io non condivido? E d’altra parte perché un Dio di misericordia non lancia oggi un segno contro le violenze che vengono compiute in suo nome? Noi crediamo all’intervento di Dio nella storia, ma oggi assistiamo attoniti e spaventati alla mancanza di segni e di profeti. Che ne è della nostra visione di un Dio padre e non giudice? In quel momento ho invidiato gli amici atei che affrontano la morte nella certezza che tutto finisca.
La speranza: il Gesù di Emmaus. Poi una piccola luce si è accesa su cui vorrei riflettere. Dio soffre con noi anche nel fare l’esperienza della solitudine. La solitudine dell’orto degli ulivi e il grido della croce rappresentano qualsiasi uomo nel momento finale. E allora è la comprensione di questo momento che cambia totalmente Dio: non più giudice, ma compagno di strada. E qui ho capito finalmente il senso dei discepoli di Emmaus. Vi è un momento in cui nonostante tutto l’uomo è solo. Solo un altro uomo che ha provato le sue sofferenze lo può aiutare. Quindi non un Dio giudice o dalla volontà indiscutibile che chiede sottomissione, ma il Dio di Emmaus. Un uomo in carne e ossa che accompagna però altri uomini nel momento della solitudine perché ne ha fatto esperienza concreta e finalmente ha capito che non si aiuta l’uomo dall’alto dei cieli, ma divenendone compagno di strada perché se ne condivide le angosce.
Nell’ultimo passo vi è il bisogno di essere accompagnati per la paura della sera e a Dio non interessa se i discepoli di Emmaus siano omosessuali o divorziati risposati o che altro: sono persone che hanno paura della sera e alla fine del giorno chiedono un conforto e vanno accompagnati e aiutati senza chiedere nulla di più nella certezza che Gesù fratello maggiore li condurrà davanti a un padre e non davanti a un giudice.
Va superata dunque l’ultima grande angoscia che è quella della solitudine davanti alla morte. Onestamente non ho fatto l’esperienza del Cristo di Emmaus. E sono rimasto solo e mi sono sentito solo. Forse non sono ancora pronto, ma spero che nella maturazione della malattia alla fine trovi accanto a me veramente un compagno di strada in carne e ossa che mangi con me e spezzi il pane e poi mi accompagni mostrandomi come Dio non sia un giudice inflessibile, ma veramente un Padre a cui il Figlio, uomo come me, mi accompagna. •
Ludovico Galleni, Docente all’Università di Pisa, deceduto il 29 novembre 2016