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Storie di ciauscoli

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Parole vecchie e nuove s’inseguono in un libro di Renato Mattioni

Istruzioni per l’uso: morbido, maneggiare con cura. Non di solo pane. Le storie del ciauscolo di Renato Mattioni (il lavoro editoriale, Ancona 2016) è un libro che fa bene allo spirito, all’umore. Specie quando in un popolo di terremotati si propaga l’umor nero, lo sconforto denso e ponderoso come il piombo. Nei giorni delle scosse telluriche che fermano il tempo dell’esistenza Renato Mattioni con un piccolo libro continua ad accorciarlo, il tempo, a sminuzzarlo. Funziona così: si prende una fetta di ciauscolo, la si aggredisce a morsi dall’inizio, la si liofilizza. Ne viene fuori quasi a sorpresa un capolavoro di brevità, una miniatura profumata, un bonsai. Durano, queste mini eppure ottime fette di ciauscolo, quarantaquattro paginette scarse. Il lettore ne esce pazzo, ma non si può dire che l’autore sia del tutto pazzo del ciauscolo, anzi a volte lo mette un po’ in disparte per percorrerne solo la storia e le storie. Ecco perché ad entrare in un libro di Renato Mattioni viene da farlo in punta di piedi come entrando in un mondo d’antan, con una chiave di accesso fatto di parole vecchie e nuove che danno ragione al dialetto. L’autore smantella, reinventa, compone e decompone, destruttura. Si insedia in quell’organismo vivo che è la rievocazione per esplorare le storie antiche di un paesaggio, di un oggetto, di un’umanità semplice e arcaica. E’ un negromante nomade l’autore, uno gnostico iniziato ai costumi arcaici dei paesi appenninici. Esplora incessantemente: raccoglie, descrive, elabora, reinventa. I preti di montagna e le chiese fredde, lo scannaturu d’nverno e la pacca del norcino, la pizza di Pasqua e il torciglione di Natale, le strade sterrate e il terremoto che tramortisce le case e si porta via le vite. Il suo esoterismo grondante curiosità è contagio di vari argomenti ed evade dall’ordinario, dal conosciuto. Entra in perfetta simbiosi e cospira con la favola dei pippopotami, il padelluccio vicino al focolare, l’affumicata del prosciutto, il lardo, la lonza, la via che porta a Loreto.

Il ciauscolo diventa l’occasione propizia per scoprire segreti, annidare emozioni, registrare certe voci umane che sgrullano l’anima di chi le ha udite da bambino: la sarciccia sta su ardu e lu core mia non pensa altru. Quanno mamma va alla messa la salciccia poretta essa. “Non di solo pane” sembra il racconto di un innamorato. L’autore affastella i ricordi, le letture, gli incontri, le testimonianze e ne ricava un arcipelago magico, un quadro sentimentale e insolito. Perché straordinario e insolito è quel modo di procedere capace di abbracciare il lembo dell’Appennino umbro-marchigiano sospeso fra tradizione e innovazione, fra borghi aspri e paesi arroccati: un mix di sentori, profumi, semplicità e mistero. Cosa resta di uno ieri raccontato con tanta tenerezza, con un pizzico di ironia e – cosa molto rara negli scrittori – di autoironia? Renato Mattioni ci consegna un’istantanea perduta e tuttavia ancora vitale: un’irresistibile commedia umana portatrice di civiltà agreste, compendio di conoscenze e aperture fuori dalle traiettorie ordinarie, una piccola geografia delle cose trascorse o nascoste che ancora vibrano come i suoni trasportati dall’acqua. Percorre le diverse anime del territorio, le stratificazioni profonde, i dettagli di vita; utilizza un linguaggio colonizzato dal dialetto. I puristi della lingua diranno che l’idioma non può essere ingabbiato in parole dialettali, sembra quasi di sentirli. Ma se si inizia a sfogliare il libro si vedrà che dentro il dialetto – così commovente, così pieno di suoni, di vocali e di consonanti che giocano tra loro – c’è un atto di giustizia resa a un territorio antico, rimasto per secoli uguale a se stesso. Un territorio povero e mai misero, dove erano sacri gli angoli delle vie, le edicole della Madonna, gli attrezzi del lavoro, dove la fatica era frammista alla festa e all’orgoglio della propria condizione. Senza questa comunità degli umili e il suo dialetto non ci sarebbero i racconti di Renato Mattioni e neppure le rime identitarie come questa: Arrizzate Marì che è iorno fattu, lu porcu sta a strillà jo lu stallittu, se no te pija un corbu su lu lettu, arrizzate Marì che è iorno fattu. Ed è proprio la lingua infarcita di dialetto – che nel libro vola modernissima ed è solo dell’autore – a tenere in piedi le emozioni che si possono attraversare tra una fetta e l’altra di ciauscolo: il norcino di casa, il freddo di dicembre, il lavoro nei campi, ma anche la Pasqua, la merenda di scuola, il tempo di guerra, quando questo salame spalmabile era una vera benedizione. Renato Mattioni fa correre su e giù il rocchetto del tempo. Ogni pagina diventa la scenografia e l’evocazione di quello che non ti aspetti e che rivivi inciampando in sanguinacci, mazzafegati, salsicce matte. Con una postilla che il libro non reca: a lavorare le salsicce matte sono rimasti Giorgio Calabrò e sua moglie Claudia Caprari, mentre il sanguinaccio si può assaggiare ancora nella casa contadina di Bruno Ottaviani a Rasenna. Insomma, se è vero che tutto o quasi nei salumi è rimasto com’era, anche la prosa di Renato Mattioni serpeggia sulfurea tra le escrescenze degli intonaci e la luce che filtra opaca nel santuario di Caspriano. Fuori, sulla strada che porta ad Appennino e Visso, tablet e smartphone in inarrestabile mutazione continuano a dire del ciauscolo che rifiuta di essere Igp: per raccontare ancora le storie del passato, per continuare a scoprire il presente, per trasferire in un libro quell’idea di salume che combacia perfettamente con le rarefazioni sibilline, la riconoscibilità a chilometri zero, la spalmabilità che non si esaurisce in quaranta giorni. Che si chiami Villanello, Vissuscolo, Morbidone di Muccia, il ciauscolo ribelle e fuori Igp – quello delle piccole cantine di Visso, Pieve Torina, Montecavallo, Muccia, Sarnano e Colfiorito, quello contestatore della tendenza globalizzata e livellatrice di questo millennio – lo distinguerete subito, osservando come rimane morbido spalmandolo sul pane anche dopo tre mesi.
Tutto raccontato, tutto descritto da Renato Mattioni con la scintilla dell’ironia intelligente, quella in cui si sorride del mondo mettendoci dentro anche un po’ di se stessi. A qualcuno riconoscersi nel libro farà l’effetto di un’immagine riflessa in uno specchio a lente d’ingrandimento, il piccolo trauma dello scoprire difetti che non si sapeva di avere. Ma poco importa: basta non dimenticare che il pubblico dei lettori, intanto, si sta divertendo. •

Valerio Franconi

Renato Mattioni è segretario generale della Camera di Commercio della Brianza. Nato a Visso, ha pubblicato  La piccola industria nell’alto Maceratese, Sui passi del Meschino, Gente rurale, La fatica dei campi, L’importanza di chiamarsi brand, #Milano-Brianza in un tweet, L’elogio del centrocampista. Collabora alle pagine di Milano del Corriere della Sera.

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