C’è prima di tutto da chiedersi quali siano «le case loro» dove andare ad aiutarli. La geografia, è risaputo, è assente dalla cultura (?) dell’italiano medio, per non parlare della storia e, tanto più, della geopolitica.
Il potere controlla bene il mondo delle informazioni e lascia filtrare solo ciò che conviene alla manipolazione della pubblica opinione e del consenso. Ebbene, chi arriva dal continente africano o dal Medio oriente, fugge da «case loro» inabitabili, semidistrutte da guerre (di cui siamo poco informati), da regimi terroristici, dalla distruzione dell’ambiente. Quali sarebbero dunque i luoghi dove la benevolenza della vecchia Europa dovrebbe convogliare i propri interventi (magari dopo aver finito di vendere armi ai signori della guerra)? Le Tv di stato e quelle private si guardano bene dal farci sentire le voci di chi arriva dalle nostre parti.
Vediamo immigrati, ma raramente e per pochi attimi ascoltiamo le loro parole. Magari qualche cronista si sforza di ricostruire le loro storie, ma pochi di loro sono invitati a raccontare le loro tragedie nei telegiornali più seguiti. Forse descriverebbero i loro paesi come «non luoghi», dove chi resta è rassegnato a sopravvivere nella miseria più nera. Un paese come l’Etiopia è una casa o una prigione a cielo aperto?
La Libia destabilizzata dall’Europa è ancora «casa loro»?
Non è dunque un caso che, non appena i naufraghi arrivano lungo le nostre coste, viene loro negato – dicevamo – il diritto di parola.
Da qualche settimana, però, le cose stanno cambiando: le recenti decisioni del governo italiano, non a caso condivise dalle destre strapaesane, hanno arretrato lo scenario e allontanato la visione degli eventi.
Gli sbarchi sembrano diminuire quasi all’improvviso (ma aumentano sulle coste spagnole) e cominciamo ad «aiutarli a casa loro». Peccato soltanto che pochi organi di informazione si premurano di darci notizia dei luoghi riservati ai migranti sulle coste libiche. Al tempo di Gheddafi erano praticamente dei lager, ora sono diventati veri e propri centri di accoglienza? Non se ne sa quasi nulla: poche foto e poche inchieste giornalistiche. E naturalmente nessuna intervista agli interessati. Finirà prevedibilmente come in Turchia: l’Europa paga ed Erdogan incassa e reprime.
L’importante è sottrarre allo sguardo quei volti che possono turbare la quiete di chi ha già tanti problemi quotidiani e cerca un telegiornale rassicurante.
Allontanare la scena di una vicenda epocale come la migrazione dei popoli e trattenere centinaia di persone e aiutarli «a casa loro», non è solo espressione di cialtronesca miopia politica, ma è soprattutto l’ennesima trovata per nascondere quella violenza congenita al mondo occidentale che risolve i problemi occultandoli o riducendone il significato storico.
Nulla di nuovo, peraltro. Gli stati moderni, è noto, hanno accompagnato l’affermazione delle proprie politiche di controllo dei mendicanti attraverso quella che alcuni storici hanno definito la «grande reclusione»: «Prima che la prigione diventasse un mezzo su vasta scala per la punizione dei delinquenti, l’Europa moderna l’aveva adoperata come strumento di realizzazione della politica sociale nei confronti dei mendicanti.
Dopo la segregazione forzata – nel medioevo – dei lebbrosi e poi degli appestati, viene il turno dei folli e dei mendicanti. La “grande reclusione” dei mendicanti nel XVI e XVII secolo costituisce il coronamento della nuova politica sociale» (Bronisław Geremek).
Adesso, però, lo stato moderno esporta la propria secolare esperienza e la reclusione la realizziamo «a casa loro». •
L’eremita degli Appennini