L’arca di Giusè
D’altra parte non sarei riuscito a trovare il suo podere, un ritaglio (come lo definisce lui) di terreno tra i campi e la boscaglia vicino al fiume. Lasciato il paese, ci inoltriamo nella campagna pianeggiante dove lo sguardo si incanala tra le colline della valle, dal mare ai monti, senza soluzione di continuità. Ci spostiamo con la sua Jeep su tratturi che si incrociano come una trama inestricabile. Non posso non notare la sua mano al volante che si muove con scioltezza da una parte all’altra per evitare le innumerevoli voragini scavate sulla sterrata; è un movimento come memorizzato, quasi autonomo dallo sguardo che invece si allunga sul panorama, assorto e sorridente mentre discorriamo beatamente delle feste natalizie appena passate.
Giungiamo ad un cancello e, dentro, ad una cascina minuscola fatta di mattoni rugosi scavati dal tempo con colori variegati dall’ocra al rosso. Giuseppe mi precede sulla scala che conduce al primo piano e mi accoglie nella stanza centrale dove apparecchia velocemente una colazione a base di salame, salsiccia e pecorino accompagnati da un rosso profumatissimo. Mi siedo sulla seggiola intorno al pesante tavolo di legno per attendere la fine dei preparativi scanditi dai passi pesanti di Giuseppe e dall’ondulare del pavimento di pianelle posate sui travi di castagno.
Giuseppe è un gran pezzo d’uomo intorno ai 95 chili con 81 primavere negli occhi che ha fatto per una vita il camionista e ha girato tutta l’Europa. Da quando è andato in pensione non si è più mosso da casa dove abita con la moglie e ha nelle vicinanze le famiglie delle due figlie con una mezza dozzina di nipoti.
“Oggi è Sant’Antonio e c’è la fiera tutto il giorno in paese” ed aggiunge “ma le bestie bisognano di mangiare anche oggi. Alla fiera ci andremo dopo”.
Così mi racconta entusiasta di questa sua piccola fattoria di quasi due ettari che ha messo in piedi anche grazie all’aiuto di uno dei suoi generi. Pomodori, patate, finocchi, carciofi, insalata, cavoli, fagioli, piselli ed ogni ben di Dio di piante da frutta: due prugni, tre peschi, due limoni, due meli, un pero, una limetta, tre ciliegi, due albicocchi e due fichi. “Tutta roba per casa!”.
Ma quando poi parla dei suoi animali gli si illuminano gli occhi. Smettiamo di mangiare e mi accompagna sul retro della cascina. Là, una sorta di arca di Noè pascola indisturbata tra gli alberi da frutta e le isole recintate per la vigna e due piccole serre degli ortaggi.
Dopo pochi passi ci viene incontro una grande oca bianca che alla vista di Giuseppe sembra quasi abbracciarlo con la sua superba apertura alare. “Ti Presento Gelsomina” dice Giuseppe.
Da li in poi tutta una serie di presentazioni: Fiordaliso e Fiocco sono le caprette, Berta e Filo i tacchini, Pina Tina, China, Marti, Nina e Dina sono le galline; Buffo, Sorcio e Cincio sono i tre conigli (gli unici che vivono in una gabbia molto grande corredata di nicchie, rifugi e percorsi). Poi ancora Bianca e Bernie sono due pecorelle, Ciuffa e Fischia due anatre.
“Vieni che ti presento Aristide e suoi amici Griso e Trincia!” Ci inoltriamo verso la macchia di vegetazione bassa che si trova in prossimità della costa collinosa, dietro ad una palizzata fatta di traversine ferroviarie.
Ad un tratto spuntano da dietro un cespuglio di ginestra due musi schiacciati, lucidi e rosa, più uno irsuto e bruno. Sono due bei maialini e un cinghiale che si avvicinano a Giuseppe attendendo che tiri fuori le mani dagli ampi tasconi del giaccone. Ed ecco che quelle mani tozze e grandi emergono dalla stoffa con le ghiande che Giuseppe raccoglie quando accompagna i nipoti al parco del paese. Aristide e i suoi amici si tuffano letteralmente sulle prelibate ghiande e danno inizio ad un concerto di versacci gutturali nel divorarle.
Mentre torniamo alla cascina chiedo a Giuseppe come riesce poi a far arrivare sul piatto della sua tavola uno dei suoi amici, come si può sentire a doverli uccidere dopo tanta sensibilità dimostrata nei loro confronti.
Giuseppe si fa una bella risata e mi chiede se è stato di mio gusto il salame e il prosciutto mangiati a colazione. Io rispondo complimentandomi. E Giuseppe: “Ne sono felice e ne è felice anche Anfro”. Ed io “Chi è Anfro?”. Giuseppe con voce sommessa mi racconta del maiale che ha “salato” a Natale di un anno fa. Aveva già quasi tre anni ed è vissuto più di tanti suoi simili (di solito un maiale viene macellato a 14 mesi). Inoltre Anfro ha conosciuto Stadia, che è morta quest’anno, e i sui figli sono Griso e Trincia.
“Anche Gelsomina ha perduto il suo Zampanò per la festa di Natale ed attende che gli riporti qualche altra amica o amico. Per questo mi aspetta sempre all’ingresso”. “Gli animali sono i migliori amici dell’uomo e anche l’uomo li deve trattare come creature di Dio, farli vivere dignitosamente e senza far mancare loro nulla”.
“Poi quando è ora tutti dobbiamo andarcene; se poi riusciamo anche a far felice qualcuno, non c’è fine migliore”.
Risaliamo in macchina e ce ne torniamo in paese per la fiera di Sant’Antonio. Passeggiamo tra la gente e tante gabbie. Cani, gatti, canarini e pappagalli, topi, conigli nani e criceti, serpenti, salamandre e testuggini.
Di gente ce n’è tanta ma di Antonio neppure l’ombra. Forse non se l’è sentita di venire e, magari, è rimasto nascosto nell’arca di Giusè. •