Una Diocesi “polifonica” si confronta

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Le prime reazioni a caldo danno il via al dibattito del “dopo convegno”, che dovrebbe proseguire nelle vicarie

L’impostazione è stata autoreferenziale, mostra una Diocesi troppo autocelebrativa

Caro Massimiliano,
ho partecipato alla manifestazione del Convegno Diocesano di Sabato scorso (20 Ottobre 2018 a Civitanova) con curiosità benevola per ascoltare il contributo della nostra Diocesi alla celebrazione del Sinodo. Ho seguito gli interventi dei gruppi di Corridonia, di Porto Sant’Elpidio e poi del Diacono Massimo d’Ignazio di Civitanova. La locandina della manifestazione prometteva bene con slogan appropriati; prendere l’iniziativa , coinvolgersi, accompagnare, festeggiare, fruttificare.
In un primo momento sono rimasto perplesso per l’impostazione dei tre interventi. Ho capito che bisognava far emergere le cose positive dei ragazzi delle nostre zone, ma nemmeno un cenno delle situazioni del loro ambiente mi è sembrato fuorviante. Non dire nulla sul problema di immigrazione dei pachistani che dura a Corridonia da vent’anni, con la gravità della situazione dopo la crisi economica, ha significato non far capire in quale ambiente quelle persone, pure volenterose, vivevano.
Così per i ragazzi dell’oratorio delle tre Parrocchie di Porto sant’Elpidio. A fronte di qualche decina di bravi ragazzi, nemmeno un cenno degli altri loro pari che sopravvivono e spesso pure male.
Infine il diacono che racconta di 25 persone separate/divorziate che si incontrano a Civitanova, senza una parola della crisi delle giovani e non più giovani famiglie in difficoltà.
Non ho capito il perché di questa impostazione che è apparsa come un “congresso eucaristico …”: testimonianze, canti, riflessione biblica, celebrazione eucaristica… Quasi a manifestare di aver paura della realtà che è problematica e, per alcuni versi, drammatica.
La Chiesa in uscita non incontra il quadro descritto sabato pomeriggio a Civitanova: l’ambiente nei confronti della fede, della Chiesa e della stessa vita è spesso lontano dai valori cristiani, se non addirittura ostile.
Mi sarei aspettato un percorso per scoprire linguaggi, approcci, iniziative, temi adeguati ai ragazzi proprio come momento positivo di proposta. È vero che i tre interventi volevano suggerire “qualcosa di nuovo”, a condizione di aggiungere molto di più, di cui nemmeno io conosco i termini. Forse da un confronto serrato potevano emergere intuizioni e coraggio.
Ho letto la tua relazione. Lo sconcerto si è acuito: mi è sembrato si trattasse di un incoraggiamento avulso dalla realtà, con parole sacrosante, ma che, nel linguaggio comune, soprattutto giovanile, sono vacue o addirittura incomprensibili, quasi tu volessi guardare il futuro per incoraggiare, senza suggerire mezzi per farlo.
Mi sono venute in mente le parole di Papa Francesco del 3 Ottobre in occasione dell’apertura del Sinodo: «… Infatti, l’ascolto e l’uscita dagli stereotipi sono anche un potente antidoto contro il rischio del clericalismo, a cui un’assemblea come questa è inevitabilmente esposta, al di là delle intenzioni di ciascuno di noi. Esso nasce da una visione elitaria ed escludente della vocazione, che interpreta il ministero ricevuto come un potere da esercitare piuttosto che come un servizio gratuito e generoso da offrire; e ciò conduce a ritenere di appartenere a un gruppo che possiede tutte le risposte e non ha più bisogno di ascoltare e di imparare nulla, o fa finta di ascoltare».
Per essere sincero mi sono sentito solo, al di fuori di una Chiesa che attribuisce ad alcuni il dovere di “assistere” (soprattutto i dolori), mentre la sua vera vita è il culto e la consolazione dei “buoni”.
Chiedo scusa per la franchezza: nulla di personale, ma solo il richiamo al modo di concepire la salvezza che è sempre di corpo e anima, di terra e di cielo, a cui tutti siamo chiamati per essere “schiavi” degli altri, come ci ha suggerito il Vangelo di Marco di domenica scorsa.
Un abbraccio, a presto.

Don Vinicio
Capodarco, li 23 Ottobre 2018

 

Eppure il lavoro svolto è stato di una Comunità

Caro Vinicio,
la tua lettera mi emoziona. Lo stesso autore della “lettera al Papa” scrive ad un “sociologo di campagna”. Appare evidente che, per gran parte dei contenuti, la tua missiva non può essere per me. Io ero sul palco, però non in posizione centrale, ma laterale. Insomma sono quello con i capelli bianchi.
Quando si accettano delle responsabilità si corre il rischio di esporsi e si mette in conto che qualcuno possa non essere d’accordo.

Spero però di non aver causato una confusione tale da svilire i verbi dell’Evangelii Gaudium in quelli che tu definisci “slogan”. Inoltre penso di non essere riuscito a farmi seguire – di questo mi dispiace e mi scuso – perché alcune sottolineature che tu utilizzi come “clava” rispecchiano, paradossalmente, diversi contenuti del contributo. Forse emergeranno in maniera più evidente dalla lettura del documento completo.
Infine la tua lettura “al singolare” e “Colombi-centrica” tradisce un’ impostazione che non mi appartiene. Per quanto posso, il mio impegno quotidiano è diretto a sviluppare anticorpi in grado di contrastare il virus dell’ “uomo solo al comando”. Anche nella nostra Chiesa il virus è in forte espansione, sia tra i laici sia tra i sacerdoti. Per questi motivi mi piace ricordare come il cammino che ha portato all’incontro di sabato 20 ottobre sia stato un lavoro di “comunità”, che per tanti, forse, può rappresentare una minaccia rispetto “ai poteri di gestione” vissuti in termini sempre più esclusivi.
Da troppo tempo ti voglio bene per non capire che la tua lettera vuole aiutarmi a farmi crescere. Di questo ti ringrazio. La prossima lettera, magari, la aspetto a casa.
Un abbraccio pieno di bene e di stima. Insieme restiamo impegnati per una Chiesa in uscita.

Massimiliano Colombi
Monte Urano, li 3 Novembre 2018

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