Come riconoscere le aziende che praticano il Greenwashing da quelle che sono realmente rispettose dell’ambiente.
Come riconoscere le aziende che praticano il Greenwashing da quelle realmente eco-friendly? Certamente occorre osservare più criticamente le loro comunicazioni e casomai con qualche consapevolezza e strumento in più per capire la storia del brand il suo impegno al livello locale e globale a favore dell’ambiente ecc. Per fare qualche esempio, le aziende che praticano greenwashing realizzano le loro campagne di marketing:
– pubblicizzando l’ecosostenibilità di un prodotto tenendo conto solo di alcune caratteristiche e spostando così l’attenzione da ciò che ha invece un vero impatto ambientale; questa è una delle pratiche più diffuse;
– fondendo dati ambientali non sostenuti da informazioni di supporto facilmente accessibili o certificate da terze parti;
– utilizzando indicazioni sul prodotto così generiche e vaghe che il loro significato può venire facilmente frainteso dai consumatori;
– inserendo etichette false o certificazioni contraffatte nella presentazione del prodotto
– fornendo indicazioni che possono essere vere per i prodotti offerti ma che hanno lo scopo di distrarre il consumatore dagli effetti ambientali maggiori causati dall’azienda nel suo complesso con altri tipi di prodotto.
Come si può tutelare il consumatore?
In Italia, il greenwashing è considerato come pubblicità ingannevole ed è pertanto controllato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Sono state già emesse diverse sentenze di condanna, ma nonostante ciò questo tipo di pratica continua a essere molto diffusa, favorita da una legislazione ancora poco stringente e vaga data la complessità della materia e la frammentazione (geografica e non solo) dei comparti, tessili, agroalimentari, combustibili per citarne soltanto alcuni. Basti ricordare ad esempio che su un solo prodotto tessile o calzaturiero lavorano molti players ognuno coinvolto in un processo diverso e quasi sempre dislocati in diversi regioni d’Italia e del mondo.
Affinché un prodotto possa essere considerato veramente sostenibile “dal campo fino all’impianto di riciclo o smaltimento” occorre infatti, che il brand che lo produce possa conoscere ogni passaggio dei processi produttivi della filiera, tutti i suoi fornitori e le loro performance di sostenibilità; e consentire al pubblico di accedere a queste informazioni.
Le aziende, consapevoli di tali lacune e della complessità di “definire” la sostenibilità, possono così promuovere campagne di marketing poco trasparenti facendo leva su quelle che sono le numerose criticità ancora irrisolte.
Ad ogni modo un ruolo fondamentale per la tutela del consumatore è svolto dalle certificazioni.
Un’etichetta ingannevole o incompleta può danneggiare il consumatore e anche l’ambiente.
Una svolta etica, trasparente e uniforme a livello di certificazioni è dunque il primo presupposto fondamentale per un cambio di rotta.
Per effettivamente saper se i capi che indossiamo o il cibo che consumiamo sono greenfrendly non è sufficiente chiederlo al commesso, al venditore o al manager; bisogna prendere atto della certificazione.
Poiché il miglior modo per accertarsi della veridicità e della reale sostenibilità delle aziende in tema di ecosostenibilità è la condivisione delle informazioni e un’attenta analisi delle certificazioni che accompagnano i prodotti, sarà necessario che queste ultime siano più chiare e stringenti su quello che sono chiamate a garantire a tutti non solo chi collabora per produrre una merce ma anche chi lo compra.
La trasparenza e la tracciabilità devono quindi diventare un tema centrale per l’industria dell’abbigliamento e le produzioni agroalimentari. La tracciabilità di ogni fase di produzione richiede però l’utilizzo di metodi standardizzati di misurazione che ad oggi non sono ancora disponibili. Per superare questa situazione è necessario identificare le criticità, raccogliere su di esse informazioni e dati, rendendoli poi disponibili all’interno di una rete, nel contesto di uno standard locale e globale condiviso e soprattutto con un linguaggio comune a tutti.
Molti sforzi sono forniti dalle aziende ma un’economia totalmente greenfrendly richiede tempo, intelligenze e risorse.
La transizione ecologica, infatti, è un obiettivo raggiungibile solo ridisegnando completamente i processi produttivi, logistici, distributivi e le modalità di consumo grazie all’applicazione di nuovi modelli di business: circolarità, durabilità, riparabilità, riciclabilità e riutilizzabilità oltre all’utilizzo di piattaforme di condivisione (noleggio e usato). Resta fondamentale a tal fine il coinvolgimento dei consumatori, i quali devono essere aiutati, e forse anche sollecitati, a comprendere come acquistare abbigliamento, accessori e altri utenze necessari ma che non inquinino il pianeta o lo inquinino meno.
Certamente rimane aperta la tematica su come sia possibile rendere sostenibile un modello di business dove la concorrenza resta sleale tra i grandi brand e i piccoli produttori. Ma questa è un’altra storia. •
Don Lambert Ayssi Ongolo