Fede nell’uomo e fede in Dio

Stampa l articolo
Forse, non c’è, nel panorama della letteratura italiana del Novecento, un autore come Ignazio Silone che è riuscito ad interpretare meglio di altri, i dubbi, le perplessità ma anche le certezze dell’uomo contemporaneo, in bilico tra la fede in Dio e la disperata ricerca di una risposta umana e politica alla sete di giustizia.

Diceva di sé di essere un “Cristiano senza Chiesa ed un Socialista senza partito”. Era solo una provocazione. In fondo, l’uomo e lo scrittore Silone sono imbevuti fino alle midolla di quel Cristianesimo Millenaristico che trova in Gioacchino Da Fiore, negli Spirituali e nei Celestini gli interpreti più autorevoli. Di questo Cristianesimo sono intrisi tutti i personaggi dei suoi romanzi. Negli ultimi anni della sua avventura umana e terrena si faceva evidente un anelito per il trascendente, un’attenzione per le domande ultime che sole possono valorizzare e dare un senso all’uomo nella storia. Scriveva infatti in Uscita di sicurezza: “Vi sono certezze irriducibili. Queste certezze sono, nella mia coscienza, certezze cristiane. Questo è troppo poco per costituire una dichiarazione di fede, ma abbastanza per una dichiarazione di fiducia”.

Ma è sempre l”eredità cristiana, con la sua carica di solidarietà umana, il movente della vita e dell’opera siloniana. Non ha mai abbandonato l’idea dell’esistenza di Dio, anche se non lo identificò mai con quello predicato dalla Chiesa Cattolica che vedeva compromessa con il potere del tempo. “Ricordati di questo”, fa dire a don Orione, mentre con lui viaggia in treno alla volta della Liguria, “Dio non è solo in Chiesa. Nell’avvenire non ti mancheranno momenti di disperazione. Anche se ti crederai solo e abbandonato, non lo sarai. Non dimenticarlo”.( Cfr. I. Silone, Uscita di sicurezza). È sempre l’eredità cristiana che, a partire dalla croce di Cristo e dall’attesa escatologica del Regno, spinge Pietro Spina, don Benedetto De Merulis, Luigi Murica, personaggi principali del romanzo Vino e Pane, don Nicola, protagonista dell’altro immortale romanzo Una manciata di more, ma anche don Serafino nel Seme sotto la neve, su vie pericolose, a compromettere in modo insensato e scandaloso la loro carriera, come gli antichi martiri. Tutti questi uomini vengono da una tradizione più antica di loro.

Sono uomini d’oggi ma vengono da lontano e vanno lontano. Non restano a casa loro, sono fuggitivi, scampati, gente che si è ribellata. Per loro la tradizione è diventata eredità, ma è ugualmente attiva e presente, anche se rinnegano o credono di rinnegare la spinta d’origine, anche quando in nome di questa spinta, si ribellano contro Dio o contro la Chiesa. “Ho l’impressione che Pietro Spina non cerchi Dio, ma sia da Lui inseguito, come uno può esserlo dalla propria ombra o da qualcosa che porta in sé” (Cfr. I. Silone, Uscita di Sicurezza). A Pietro Spina che dice di aver perduto la fede, don Benedetto risponde: “Nei casi simili al tuo, è solo un banale malinteso. Non sarebbe la prima volta che il Padre Eterno è costretto a nascondersi e assumere pseudonimi”( Cfr. I. Silone, Vino e Pane). La nostalgia di Dio si accosta alla liturgia cristiana dell’Eucaristia nelle indimenticabili pagine della morte di Luigi Murica assassinato da sicari fascisti: «Il vecchio Murica in piedi, a capo del tavolo, dava da bere e da mangiare agli uomini attorniati.

“È lui – egli disse – che mi ha aiutato a seminare, a sarchiare, a mietere, a trebbiare, a macinare il grano di cui è fatto questo pane. Prendete e mangiate, questo è il suo pane. Altri arrivarono. Il padre versò da bere e disse: “È lui che mi ha aiutato a potare, insolfare, sarchiare, vendemmiare la vigna dalla quale viene questo vino. Bevete, questo è il suo vino» (Ibidem, pagg. 378- 379). Di carattere ribelle, Ignazio Silone aderì alle idee rivoluzionarie del socialismo visto come una risposta alla viltà di quanti non si opponevano ai soprusi dei potenti di turno che avevano trovato nel Fascismo il loro alleato del momento. Abbracciò l’ideologia comunista. Ripensando a questa scelta, scriverà più tardi: «Erano ancora i tempi in cui dichiararsi socialista o comunista equivaleva a gettarsi allo sbaraglio… Il proprio mondo interno, il “medioevo” ereditato e radicato nell’anima, e da cui, in ultima analisi, derivava lo stesso iniziale impulso della rivolta, ne fu scosso fin nelle fondamenta, come da un terremoto. Fu nel momento della rottura che sentii quanto fossi legato a Cristo in tutte le fibre dell’essere ».

Dall’esperienza comunista ne uscì assai deluso, quando scoprì a sue spese che la casacca di molti compagni comunisti, conosciuti nelle riunioni dell’Internazionale Comunista sotto Stalin, era simile al ruvido saio del frate inquisitore medievale.

Raimondo Giustozzi

Rispondi