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Il racconto crea legami

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numero 7“La gioia evangelizzatrice brilla sempre sullo sfondo di una memoria grata” (EG 13): così ci ricorda Papa Francesco nella sua ultima Esortazione Apostolica. Più volte ci ripetiamo l’urgenza di annunciare il Vangelo come se fosse la prima volta. Questo annuncio può farlo chi ha una memoria grata della sua esistenza, che oggi non può più essere data per scontata. Cosa si è interrotto o spezzato nella trasmissione della fede alle nuove generazioni? È venuta meno la narrazione, non ci si racconta più.

La memoria grata della propria esistenza, che è riletta come un cammino di Alleanza con Dio, conduce a trasmettere la fede narrando. Il memoriale è a fondamento di ogni azione liturgica. Eppure noi non ci raccontiamo più, non siamo allenati ad una lettura unitaria della vita, ad un discernimento che richiami il filo rosso che lega l’esistenza; abbiamo sempre a che fare con frammenti, l’impresa per noi più grande è diventata portare a termine la giornata senza più darci grandi prospettive. Ciò ha un’incidenza pessima e distruttiva anche nel nostro rapportarci alla Parola di Dio. Quando sostiamo davanti ad un brano della Scrittura, difficilmente facciamo entrare in gioco la nostra storia, ma ci preoccupiamo subito di trarre da esso insegnamenti morali, più per gli altri che per noi. C’è un modo di dire, rivolto a persone che ripetono le cose a memoria e in maniera esatta: “Parla come un libro stampato”. Molte persone, noi compresi, a volte, presentiamo la Parola di Dio così, non come elaborati manuali di teologia perché magari non abbiamo una accurata preparazione, ma come piccoli “bignami di catechismo” per i quali tutto è limpido e scontato nella Parola, e se uno non la capisce è perché ha poca fede. La fede può essere trasmessa solo nella narrazione della propria storia con Dio, non esistono altre vie. E la liturgia, che trova il suo culmine nella celebrazione eucaristica, non è altro per noi che l’unico grande racconto che include due orizzonti che sfuggirebbero alla nostra attenzione e che né la scienza, né la tecnica, né la filosofia potranno mai consegnarci: l’inizio e il compimento della nostra storia personale e comunitaria. Il recupero di tale memoria grata attraverso il ritorno alla narrazione è anche un grande servizio all’uomo stesso. L’identità dell’Occidente, nel quale noi viviamo, ma anche di ogni civiltà, è nata da grandi racconti, da poemi trasmessi prima oralmente e poi racchiusi nella forma scritta. D’altra parte il contesto postmoderno è tale anche per la fine delle grandi narrazioni: noi siamo i terminali di una serie di informazioni, o di una cronaca di eventi proposti in tempo reale. La perdita della narrazione è un grande rischio per l’uomo, che può smarrirsi e perdere la propria identità. La narrazione ci permette di ritrovare noi stessi negli eventi che costituiscono la nostra vita. Non dimentichiamo poi come il racconto riesca a veicolare molto più efficacemente insegnamenti morali rispetto a codici di leggi, ad esortazioni o “prediche, per quanto tutte cose necessarie. Ritorniamo a narrare noi stessi per poter gustare la gioia evangelizzatrice, la gioia del generare nuovi uomini, nuovi cristiani, nuovi cittadini. •

Giordano Trapasso

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