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Nella vecchiaia daranno ancora frutti

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numero 6Senectus ipsa est morbus, scrive Publio Terenzio Afro nella commedia Phormio: la vecchiaia è per se stessa una malattia. E arriva sempre molto presto, più di quanto ci si possa attendere, annota Cicerone nelle Tusculanae Disputationes: essa insegue già alle spalle i fanciulli, gli adolescenti e ti raggiunge quando neppure ci pensi (modo pueros, modo adulescentes in cursu a tergo insequens, nec opinantis adsecuta est senectus). Anche io, senza quasi avvedermene, mi trovo ora in illam meae partem aetatis superveniens (giunto in quella parte della mia età) che fa da confine tra l’età matura e quella anziana (imbecilla aetas), sancita, e sanzionata quasi, da una serie di attenzioni, più formali che sostanziali in verità, pietosamente impietose, teoricamente volte a tutelare una fragilità, ma più atte a circoscrivere una fascia sociale detta debole, e quasi un marchio di defabbricazione imposto a un prodotto per la rottamazione: ultrasessantacinquenne – finito, non servi più! Ci sono arrivato – questa è l’impressione – come un nuotatore condotto (trascinato?) dalla corrente di un fiume via via più rapido e impetuoso: il nuotatore arranca, si dimena, talora si aggrappa a qualche appiglio, e poi eccolo ancora sull’onda, mentre gli spettatori del suo andare si rarefanno man mano che l’andare stesso avanza e poi, ad uno ad uno, distratti si volgono altrove e se ne vanno. Il nuotatore rimane solo.

Che il tempo scorra (corra) lungo due dimensioni è esperienza di tutti: il tempo interiore non ha la stessa velocità del tempo cronologico: lento inizialmente, aumenta di velocità con il correre degli anni, sempre meno trattenuto da aspettative, attese, progetti, sempre più violato e coinvolto nella monotonia del quotidiano, delle sue occupazioni e delle sue irrimediabili preoccupazioni, alimentato da rimpianti, sensi d’impotenza o di colpa, di perdita, di frustrazione. E oggi colorato anche di alienazione, di qualcosa cioè d’inutile e di oppressivo che ci sottrae pertinacemente a noi stessi, come la fretta noiosa e snervante che ci impedisce di guadagnare “il” tempo. Insomma, “vassene ’l tempo e l’uom non se n’avvede” (Dante, Purg., IV, v 9), ma non nel senso che intendeva il poeta – quando si è concentrati su una cosa non ci si accorge del passare del tempo –, bensì in senso opposto: essendo noi de-concentrati, ossia senza un centro di gravità che ci stabilizzi, perdiamo tutto il tempo, sia quello psicologico sia quello cronologico, di ciò che abbiamo seminato raccogliamo solo la paglia. E così, al levarsi dell’età anziana, ci affliggono l’inutilità e il vuoto; occorrerebbe un di più di energia per riscrivere una storia troppo dispersa, ma l’energia manca.

Tramontano le certezze, e anche la certezza della fede, per chi non sia un fideista a oltranza, si fa incostante, intermittente, nebulosa, dubitosa, e il dubbio è doloroso, e il dolore – somma dei dolori passati, dei presenti e di quelli presagiti – può indurre all’impotenza. Ma perché divago, se mi è stato chiesto un intervento da operatore sanitario? Ma perché l’uomo è sempre un’unica realtà, e la sua storia e il suo sentire sono i grandi moventi del suo stato di benessere o di malessere anche fisico. Sulla senescenza e sulla vecchiaia la retorica ha speso enormi risorse persuasive, forse a scopo di scongiuro o di deprecazione, e qui non sto ad elencarle. Avete presenti quelle insulse trasmissioni televisive di divulgazione scientifica che esaltavano (non so se esaltino ancora, non le seguo più da molto) longevità fisico-psichiche in pieno benessere, figlie del progresso della scienza e della medicina, della genomica e della proteomica, delle biotecnologie riparative?

Ebbene, siamo al palo, quello che si è speso è tanto, quello che si è ottenuto è (quasi) niente, quello che qualcuno ci ha lucrato non è poco, e tutto ritorna sempre moltiplicato a chi ha investito e a chi ha pubblicizzato, non a chi – forse troppo ingenuamente – ha sperato. Lo dimostrano i lugubri volti rifatti dei protagonisti dell’immagine. Il fatto è che il nostro organismo è un apparato biologico che, nel suo evolversi nel tempo, non prevede soste o ritorni indietro. Le sue strutture molecolari, vergate con la norma dell’entropia (l’energia utile all’interno di un sistema è sempre minore dell’energia totale disponibile), non possono che incrementare in se stesse un continuo differenziale di disordine, al quale i processi riparativi si oppongono in modo sempre meno efficiente. Le molecole si fanno più instabili, le cellule si rinnovano con minore efficienza, gli organi si degradano, e l’organismo si riconfigura continuamente verso la senescenza, che in sostanza è un venir meno di funzioni e di integrazioni, fino a configurare quei deficit permanenti e intensamente gravosi che sono le malattie degenerative. Un esempio: con l’andare degli anni le cellule nobili del cuore (miociti e cellule specializzate in eccitazione e conduzione degli stimoli) vengono sostituite gradualmente – o massivamente, in caso d’infarto – da un tessuto meno nobile e più duro, fatto di fibroblasti riparanti e di fibre collagene da essi prodotte. Il cuore stesso si fa più “duro”, meno elastico e meno contrattile (miocardiosclerosi), presupposto di aritmie e scompenso, che sono espressioni patologiche di un processo biologico sottostante e sostanzialmente immodificabile, nonostante qualche tentativo di correzione di ciò con cellule staminali (ma funzionerà? e, soprattutto, funzionerebbe per il sistema cuore nel suo complesso?).

Analoghe considerazioni, mutato ciò che v’è da mutare, possono essere applicate un po’ a tutti gli organi. Ma queste progressive e ineluttabili alterazioni regressive – e qui non tratto delle patologie gravi che possono sopraggiungere prima – non hanno in tutti – è arcinoto – la stessa velocità di andamento. Vi sono senescenze piuttosto precoci, altre più in linea con gli anni cronologici, altre nelle quali l’età biologica sembra procedere molto più lenta dell’età cronologica, e quindi i titolari godono di più abbondanti e migliori anni, fino a longevità, assolutamente improbabili a pensarsi, di soggetti che arrivano, e bene, ai novanta o ai cento anni, talvolta trascinandosi dietro gravi patologie (diabeti, dislipidemie, cardiopatie ischemiche, neuropatie ecc.) che stroncherebbero vite ben più “giovani”. È chiara in questi casi l’importanza del fattore genetico, sul quale i fattori comportamentali e ambientali paiono agire ben poco. Ma chi non ha questa “protezione” di madre natura è inesorabilmente destinato a una ben più misera sorte? Un po’ si può fare anche in tali casi più “normali”.

Si sa, infatti, che l’invecchiamento può essere un po’ posticipato e anche un po’ rallentato da misure preventive: controllo dei fattori di rischio principali (diabete, ipertensione, ipercolesterolemia e ipertrigliceridemia, iperuricemia); astensione dal fumo di tabacco, dall’abuso di alcol e di altre sostanze e da comportamenti pregiudizievoli; dieta ricca di frutta, di fibre e di pesce, e povera di calorie, di sale, di zuccheri semplici e di grassi (dieta mediterranea); attività motoria regolare (almeno un’ora di cammino tre-quattro volte alla settimana), adeguato riposo notturno, digiuno un giorno ogni sette – se non controindicato – con sola assunzione di liquidi, un minimo di screening per patologie facilmente aggredibili in fase iniziale. Ma su un altro quasi indefinibile e indefinito aspetto vorrei soffermarmi. Ciascuno di noi ha un habitus, esterno e interiore, quello specchio di questo e questo più importante di quello, che è il prodotto, sempre in itinere e mai compiuto, della nostra stoffa costituzionale e di come la lavoriamo attivamente e liberamente e deliberatamente mediante il gioco delle nostre passioni predominanti. Se a dominare sono le passioni che tirano verso il basso, e qui le diciamo vizi: superbia, lussuria, avarizia, ira, gola, invidia, accidia, dato che queste si accordano con pulsioni psicologiche istintive e pressoché spontanee, i fenomeni neuromolecolari ad esse sottostanti debbono seguire anch’essi delle cascate di reazioni decostruttive che de-compongono il sistema portando al minimo il suo contenuto d’energia libera e al massimo il contenuto d’entropia (disordine).

Se, invece, a dominare, sebbene dopo opportuna ascesi, sono le passioni che sospingono verso l’alto, e qui le diciamo virtù: umiltà, temperanza, distacco, mansuetudine, sobrietà, amore, pratica del bene, dato che queste si accordano con tensioni psicologiche volute, attive e non facili, dirette verso una meta posta a un livello superiore rispetto alla base di partenza, anche i fenomeni neuro-molecolari sottostanti debbono seguire gradi ascensionali costruttivi che non solo non decompongono il sistema del neurostato, ma lo riorganizzano, lo rafforzano e lo ri-strutturano portando al massimo il suo contenuto d’energia libera e minimizzandone il contenuto d’entropia. Sto dicendo che mediante l’astensione dai vizi e l’adesione alle virtù si può influire favorevolmente sulla senescenza del nostro neuro-psicostato, e quindi di tutto il nostro essere psicosomatico? Sì, e un’osservazione più che trentennale di soggetti che, invecchiando, evolvono secondo l’habitus morale al quale si sono via via conformati, me ne rende sempre più persuaso. In chiusura vorrei aggiungere qualche postilla per chi eventualmente abbia aures audiendi: usate il meno possibile la televisione. Il suo ruolo invasivo e distruttivo sul nostro neuro-psicostato è veramente funesto; usate la rete solo quando è necessario, e come padroni, non come schiavi; dedicate un po’ di tempo alla lettura di qualche buon libro, e non di libri ciarpame: in librerie fidate se ne trova sempre qualcuno in mezzo al ciarpame; esercitate la vostra memoria imparando a memoria qualcosa: una poesia, una canzone, un brano, un teorema (dopo averlo capito, s’intende), una storia: non c’è niente capace di mantenere e riformulare positivamente il nostro neuro-psicostato come l’apprendimento a memoria. •

Giovanni Zamponi

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