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I tesori di Palazzo Felici

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Montefalcone Appennino: uno scrigno pieno di gioielli

Spesso luoghi periferici e “secondari” conservano scrigni di grande bellezza, che sfuggono all’attenzione dei più.
E’ il caso di Montefalcone Appennino, uno fra i più piccoli centri della Diocesi – l’ultimo censimento registra soli 470 abitanti – dove fin dagli anni ’90 è stato istituito un importante e molto suggestivo Polo Museale, ospitato all’interno dell’antico palazzo edificato nel ‘600 dalla nobile famiglia dei conti Felici.
Tutto lo spazio è stato restaurato e riconvertito ad uso espositivo: le antiche scuderie al piano terra, i sotterranei, il meraviglioso piano nobile completamente affrescato. Oltre agli interni, elemento di particolare attrattiva è il giardino panoramico realizzato negli anni ‘20 sul fianco della rupe, che conduce ad una piccola grotta naturale da cui si gode un incomparabile panorama.
Originariamente il Museo era nato per l’esposizione dei fossili locali, di cui il territorio comunale risulta particolarmente ricco (Montefalcone letteralmente “sorge” su un antico fondale pliocenico); con il tempo e l’impegno delle amministrazioni, oltre che grazie alla passione del suo primo curatore, il Maestro Neldo Bruni, si sono gradualmente aggiunte una imponente sezione mineralogica ed una di fossili di varia provenienza mondiale.
Quest’ultima in particolare ha arricchito notevolmente il valore scientifico del Polo Museale, vista la presenza di campioni di raro pregio, che consentono di tracciare un quadro completo dell’evoluzione della vita sulla Terra: davanti agli occhi scorrono i resti delle prime alghe stromatolitiche, trilobiti, uova di dinosauro, insetti intrappolati nell’ambra, zanne di mammut, ossa di orsi delle caverne e crani delle più antiche specie umane.
A rendere davvero eccezionale il sito, accanto a fossili e minerali, è però la presenza di una piccola sezione di Arte Sacra, che custodisce un gioiello di valore incalcolabile: un polittico del pittore austriaco Pietro Grill (Pietro Alamanno), allievo di Carlo Crivelli, unico al mondo dell’autore ad essere rimasto integro entro la preziosa cornice.
L’opera, databile fra il 1475 ed il 1480, era stata realizzata per la Chiesa di San Giovanni Battista, legata al locale convento dei Frati Minori Osservanti, luogo di una certa importanza da cui sarebbe partita circa cinquanta anni dopo la riforma cappuccina con Matteo da Bascio.
Dal punto di vista stilistico il polittico si inserisce ancora nei moduli del Gotico internazionale, pur con qualche significativa apertura alle novità della pittura rinascimentale.
L’analisi iconografica mostra chiaramente la committenza francescana alla base dell’opera, per la scelta di raffigurare i “campioni” dell’Ordine: il Poverello d’Assisi con accanto San Ludovico da Tolosa, Sant’Antonio da Padova, San Bonaventura da Bagnoreggio e San Bernardino da Siena. Probabilmente per lo stesso motivo la Vergine in trono è rappresentata in uno spazio molto sobrio, privo di decorazioni e di elementi vegetali, in linea con l’austerità dei seguaci di Francesco. Interessante la presenza di un elemento che rinvia ad un dibattito teologico, già molto sentito all’epoca, quello sull’Immacolata Concezione; sotto la figura di San Francesco, nel pannello inferiore destro compare un piccolo frate inginocchiato, forse il committente, che reca un cartiglio su cui si può leggere “Non est verus amator Virginis qui renuit eius conceptionem celebrare” (Non ama davvero la Vergine colui che proibisce di celebrare la Sua Immacolata Concezione). I Francescani avevano trovato un modo sorprendente di alludere alle loro posizioni dottrinali, che poi sarebbero risultate vincenti con la definizione del Dogma di Fede da parte del Papa nel 1854.
Fa riflettere come molte opere artistiche di grande rilievo, nonostante saccheggi, invasioni e cupidigia umana, siano ancora presenti nelle Chiese dei piccoli centri della nostra Diocesi, testimonianza di un attaccamento delle comunità alla Tradizione e alla Fede e di una devozione ancora ben radicata. Un’eredità imponente; la nostra generazione saprà ancora trasmetterla? •

Francesco Capriotti

 

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