Il giorno delle loro nozze (foto gentilmente concessa da Cristina Girotti)

Le parole di una città depressa e incapace di pensare il nuovo

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Fermo: analisi di una collettività bloccata su schemi mentali tipici di un “passato che non vuole passare”.

La stampa ufficiale (di regime, tanto per intenderci) non manca di esprimere in vario modo, anche nella sinistra salottiera, una cultura, o meglio una ideologia che a suo tempo Pasolini definiva sulle pagine del “Corriere della sera” clerico-fascista. Non entro nei dettagli delle tante, talvolta fantasiose ricostruzioni dell’omicidio avvenuto a Fermo che tendono a ridurre e a ridimensionare l’accaduto all’interno di una sorta di normalità semi-ufficiale che non vuole essere intaccata da niente e da nessuno.
Proviamo invece a chiederci: “Quale ideologia si manifesta prevalentemente nelle parole dell’opinione pubblica, fermana e non solo (vista la dimensione nazionale dell’accaduto)?”. Le parole, è risaputo, non sono il rivestimento delle cose, ma sono le cose stesse. Se c’è un punto fermo che un secolo e oltre di linguistica moderna e di filosofia del linguaggio ci ha lasciato in eredità è proprio questo. Allora non resta che inoltrarsi non tanto nell’analisi delle “cose” che vengono dette, ma in quella delle forme linguistiche, e in particolare retoriche, con le quali sono espresse. L’ideologia di fondo o, in altri termini, la sostanza ideologica del discorso si ritrova nella forma stessa, nell’architettura generale del discorso, laddove chi parla o scrive, pensando a cosa dire, non riflette – ovviamente – sulle strutture del discorso che cerca di svolgere. Nel nostro caso l’analisi risulta sorprendentemente facile e tristemente eloquente. La maggioranza dei discorsi (giornali in testa, ma anche parecchi interventi in tv e politicanti del sabato sera) si sviluppa secondo un modulo linguistico fondato su frasi concessive e correttive, del tipo “va bene, ma…”; “concediamo pure… tuttavia…”; oppure suppositive: “ammettiamo che… ma comunque…”. Il procedimento si fonda su una frase principale che enuncia un’affermazione perentoria, la quale apparentemente lascia lo spazio ad un’altra frase, concessiva o suppositiva, che viene subito riassorbita nell’orizzonte concettuale della principale. In altri termini, la frase principale non si lascia correggere da quella secondaria; accade piuttosto l’inverso. Così funziona un’ideologia autoritaria: la certezza dominante non si fa mettere in discussione (nel caso dell’Italia dei nostri tempi, si tratta del clerico-fascismo che coinvolge la maggioranza dei cittadini, di destra e di sinistra) da fatti inconfutabili (l’assassinio di un extra-comunitario); “ammette” che qualcosa è accaduto, ma non permette che l’asserto intorno al quale si articola la sostanza del discorso sia messo in discussione. “Ma”, “Tuttavia” sono espressioni che riducono alla normalità del sistema ciò che, entrando in esso, potrebbe farlo deflagrare.
In questo modo anche l’onda emotiva viene accolta (apparentemente) e subito assorbita. Chi parla in questi giorni quasi sempre utilizza inconsapevolmente questa procedura, o meglio lascia che in lui l’ideologia del sistema riaffiori plasmando il discorso pubblico. Ancora una volta noi siamo le parole dell’ideologia dominante proprio quando crediamo di pensare liberamente.
C’è allora da chiedersi come impedire che continui a parlare in noi l’ideologia clerico-fascista. La strada è evidente, ma difficile da percorrere.
Il clerico-fascismo è espressione di una società in pauroso e avvilente ritardo sui tempi, una società, come quella fermana e italiana in genere, sostanzialmente legata ad una mentalità premoderna, ad un’epoca in cui nessun avvenimento può permettersi di mettere in discussione l’assetto autoritario, fortemente individualistico, in cui i conflitti (anche quelli di classe) non esistono perché non esiste né borghesia imprenditoriale né classe operaia, dove quello politico è sostanzialmente un ceto parassitario, immobile, geloso custode delle proprie prerogative. Quando poi questo mondo piccolo piccolo è costretto a fare i conti con l’orizzonte della globalità, la reazione è la chiusura netta, ammantata di perbenismo, assistenzialismo pidocchioso e devozionismo domenicale. Un universo mentale privo del tutto dei paradigmi necessari per “pensare” il nuovo e di conseguenza aprirsi al futuro, che può solo reagire con la violenza, come nel caso di questi giorni (e qui vanno considerate anche le bombe piazzate in prossimità delle chiese) o con i giochi verbali di una pseudo-cultura strapaesana, che non si lascia mai mettere in discussione fino in fondo, perché non saprebbe dove cominciare. L’ideologia dominante è il basso continuo pervasivo che riaffiora nelle modalità stesse con cui raccontiamo ciò che accade, sterilizzandone la forza provocatoria: “C’è stato un omicidio, ma… non bisogna alzare i toni”; “La vicenda è dolorosa, ma… c’è chi ne approfitta per mettersi in mostra”: ecco le miserie di procedure concettistiche tardo-barocche, bugiarde e rassicuranti.
In fin dei conti niente di nuovo: la vecchia e depressa Europa non riesce ad abbandonare i paradigmi mentali del Novecento e a pensarne di nuovi, confrontandosi con i dinamismi epocali (e non congiunturali, come l’ideologia clerico-fascista vorrebbe far credere) che dissolvono gli schemi di un tempo. Identità, nazione, tradizione ecc.: mercanzia del passato quando rimangono termini monolitici, consolatori perché immutabili, e non sono invece considerate come riferimenti dello svolgimento incessante della storia. Nella sua omelia in duomo l’arcivescovo si è lasciato sfuggire un’affermazione che però non ha sviluppato fino in fondo: “I veri disperati siamo noi”, ha detto. E’ vero, ma nel senso profondo, antropologico e storico, non moralistico della parola. Essere disperati vuol dire, etimologicamente, “non avere speranza”, ovvero non avere il futuro, essere privi della libertà di progettarlo e dello slancio vitale necessario per affrontarlo.
Ebbene, chi lascia parlare in sé l’ideologia dominante è senza futuro, perché il sistema clerico-fascista non ammette quel futuro che può rivolgere il presente e trasformarlo interamente (solo questo è infatti il futuro vero, quello prevedibile o integrabile nel passato-presente statico è solo una falsa proiezione del presente nel futuro già normalizzato). Pertanto la pseudocultura dei benpensanti riduttivi di turno non può comprendere ciò che sta accadendo.
Che cosa si tratta di capire? È presto detto: due giovani immigrati, oltraggiati nella loro persona da insulti razzisti, hanno difeso l’unica cosa che la vita non è riuscita a strappare loro: la dignità. Lo hanno fatto come hanno potuto in quel momento con la forza del rifiuto dell’umiliazione. I dettagli dell’evento interesseranno i giudici e i legali: come cittadino mi limito ad accogliere una lezione che mai avrei pensato da ricevere nella mia città: per difendere la propria dignità da un razzismo vile e pervasivo si può ancora morire in una cittadina di provincia, spocchiosa e piccolo borghese dell’Italia depressa dei nostri giorni. Tuttavia… restate sereni, tornerà presto la normalità: la signora contessa verrà alla messa solenne della domenica, offrirà qualche spicciolo superfluo e nessuno riderà. •

Paolo Petruzzi

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