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Un territorio non solido – parte 2

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Il terremoto visto da un economista

Al direttore – La memoria è una struttura mobile. È condizionata da ciò che accade e non è data una volta per tutte. Accadono eventi che irrompono nella vita e mutano non soltanto la nostra prospettiva sulle cose future ma che sono in grado di stravolgere il nostro rapporto con il passato. Il terremoto è un’onda che si propaga non solo nello spazio ma anche nel tempo. Si allarga nel presente ma anche nel passato modificando la percezione di una parte della nostra storia e della nostra memoria. Per noi che viviamo o siamo originari delle Marche basse, i Monti Sibillini hanno sempre fatto da cornice ai nostri ricordi. I loro colori determinano la percezione visiva del cambio delle stagioni. Il Monte Vettore imbiancato dall’autunno a primavera che torna poi a mostrare progressivamente la roccia e i prati con l’avanzare della bella stagione. Ed è da lì, dai Sibillini, che inizia la nostra terra, o è lì che finisce, con il paesaggio di colline crescenti che dal mare Adriatico arrivano alle cime del Monte Vettore, della Priora, della Sibilla. Il paesaggio delle Marche ha nella dolcezza del territorio il suo carattere peculiare.
È un luogo rassicurante, non ha la sublime e violenta bellezza di altri posti. È un paesaggio morbido e accogliente. Ma questa percezione dei nostri luoghi adesso è mutata radicalmente rendendo il passato una specie di illusione. Questa memoria di tenerezza e di stabilità delle origini s’incrina e sfocia nella percezione di aver vissuto un inganno. Ci fa pensare che non era questa la realtà perché esisteva, sotto di noi, un assoluto potenziale di distruzione e annichilimento della nostra vita e della nostra storia individuale e comunitaria. La cancellazione dell’identità di un luogo è anche e soprattutto questo.
Oltre alla caduta dei monumenti, c’è la caduta del modo in cui storicamente ci si è percepiti e si è percepito il luogo in cui si vive. È stata colpita l’idea che questo sia un posto in cui è sempre bello e sicuro abitare o tornare, l’idea che dovunque si vive, dovunque si lavora, dovunque si studia, questo posto c’è ed è nostro. È stata colpita l’idea che sia un luogo stabile, sicuro e quasi immutabile grazie alla certezza dei suoi storici piccoli comuni, uno su ogni cucuzzolo di collina, dei suoi campanili e delle sue chiese che ci ricordano, sebbene siano poco frequentate e sempre più popolate soltanto da anziani, di un’appartenenza religiosa e comunitaria che sempre più ci sfugge. Tutto questo si sbriciola. E le case, luoghi di rifugio e di memoria per eccellenza, diventano oggetti da controllare, da guardare con sospetto, perché il luogo più familiare potrebbe diventare il pericolo più grande franandoci addosso. Come in una guerra si guarda il cielo azzurro e, invece della luce e del buon umore, si aspettano le bombe, lo stesso capita con la terra a cui siamo così legati, che ci ha costituito e che ha gettato le basi della nostra memoria e della nostra identità. A questa terra, come al cielo azzurro durante una guerra, a questa terra in cui ci riconosciamo e in cui abbiamo tracciato le linee di chi siamo, adesso riusciamo a guardare soltanto come a una minaccia. •

Michele Silenzi
Il Foglio – 3 novembre 2016

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