Alla tavola di Re Carnevale

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Anche quest’anno è Carnevale. La festa non ha una data fissa (varia da febbraio a marzo). Ha il suo culmine nei giorni compresi tra il giovedì grasso e il martedì grasso che precede il mercoledì delle Ceneri con cui inizia la Quaresima.
Che derivi il suo nome da carnem levare (togliere la carne), preannuncio dei successivi 40 giorni di Quaresima col relativo digiuno; o da carni vale (carne addio), perché in questo periodo si esaurivano le scorte gastronomiche di carne prima della primavera poiché bisognava mangiare solo di magro; o ancora da carni levamen (sollievo per la carne), nel senso di libertà temporanea concessa agli istinti più elementari, il Carnevale fu sempre lo sfogo della “carnalità” prima della “purificante penitenza”.
È un periodo in cui tutto è concesso – “a Carnevale ogni scherzo vale” – e ogni limite morale annullato: “Il Carnevale è così poco pulito, che il giorno dopo bisogna metterci sopra le Ceneri”, diceva Paul Vèron.
Essendo una ricorrenza che di spirito religioso non ha mai avuto proprio nulla, vige la totale libertà.
Per questo si dice martedì (giovedì ecc) grasso: e sempre per questo di una persona cicciona e sorridente si dice che “pare un Carnevale”.
I piatti tipici del Carnevale nelle varie regioni italiane sono quasi tutti dolci fritti (grassi) fatti con strutto o lardo. Questo perché in passato ai festeggiamenti erano presenti moltissime persone e si dovevano preparare dolci veloci e a basso costo. Ogni regione ha le sue ricette tipiche le cui origini sono molto antiche.
A Carnevale poi ci si maschera. Tutto si poteva fare, ma era meglio non farsi riconoscere.
E ci si maschera ancora.
Secondo il drammaturgo Sigmund Graff “Durante il Carnevale molti scoprono il vero volto nel momento in cui si mettono la maschera”; ma ciò in fondo non accade ogni giorno?
Per Pirandello non siamo mai realmente noi; la società con le sue regole ci impone sempre una “maschera sul volto”, ci costringe a “fare una commedia” della nostra stessa vita obbligandoci a recitare varie parti.
Talvolta siamo noi stessi a “gettare la maschera”; altre volte ci viene intimato “giù la maschera!”, o veniamo in ogni caso scoperti: “ti conosco, mascherina”.
Secondo il pensiero comune colui che recita atteggiamenti non suoi è considerato generalmente un ipocrita; ma questa parola deriva dal greco hypokrites, attore.
Infatti di un attore dal viso molto espressivo in gergo tecnico si dice ancora che “ha una bella maschera”.
Nella vita reale poi ci sono innumerevoli persone che – insoddisfatti del loro aspetto reale – si sottopongono fisicamente a eccessive plastiche chirurgiche o trattamenti affini, rischiando spesso di apparire, come nella favola di Fedro, pulchra larva, cerebrum non habens: una bella maschera, ma senza cervello.
Altre si limitano a truccarsi il volto “come maschere” per nascondere rughe e difetti o porre una “maschera difensiva” tra le loro insicurezze e il mondo.
Così come esistono anche quelle che perennemente indossano la “maschera del riso”, poiché sanno che le facce tristi e preoccupate non fanno del bene né piacciono a nessuno.
Come scriveva Trilussa di se stesso:

Nascónno li dolori
de dietro a un’allegria
de cartapista
e passo per un celebre egoista
che se ne frega de l’umanità! •

(dal blog di Mitì Vigliero)

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