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Come leggere la Bibbia

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ITM: intervista al biblista don Tonino Nepi

La recente scoperta di un’altra grotta a Qumran ha riportato nuovamente l’attenzione degli studiosi sull’archeologia biblica. Abbiamo approfittato della circostanza per una conversazione con il prof. don Antonio Nepi, docente stabile di Sacra Scrittura presso l’Istituto Teologico Marchigiano.

Prof. Nepi, quali sono state le scoperte più interessanti e recenti legate al mondo dell’Antico Testamento?

Citiamo il verso del peana del pozzo: “Sgorga o pozzo scavato, pozzo perforato da nobili” (Nm 21,17), perché era di buon auspicio. L’archeologia biblica cominciò nella metà del XIX secolo con le scoperte a Gerusalemme (cfr. tombe dei re) e in molti altri siti nel Vicino Oriente. Poi sono seguite varie scoperte sfruttate sia per affermare che la Bibbia aveva ragione, o per smentirne la storicità, o per capire che la storia biblica è squisitamente teologica, fondata comunque sempre su nuclei storici rielaborati, ma mai inventati. Emblematico è il caso di Gerico. Gli scavi hanno dimostrato che era disabitata al tempo della conquista di Giosué, ma l’intento del narratore biblico era partire da effettive rovine per trasmettere il valore della “guerra santa”, una guerra che non otteneva la vittoria grazie alle armi, ma grazie al culto. Gerico infatti cade per la settuplice processione con l’arca intorno alle mura. Limitandoci agli scavi più recenti, in testa alla hit parade vi sono i Rotoli del Mar Morto scoperti nelle caverne vicino Qumran (nord-est) nel 1948, che riportano quasi 1100 documenti oltre miriadi di frammenti che contengono sezioni o interi rotoli di ogni libro dell’AT in ebraico, tranne il libro di Ester. L’importanza sta nella conferma che il testo ebraico che oggi leggiamo, è corrispondente a quello che si leggeva all’epoca di Gesù, con piccolissime varianti. Al secondo posto la mitica città di Ebla (III millennio) a 60 km da Aleppo in Siria, importante per i suoi archivi reali, scavata dall’italiano P. Matthiae, negli anni ‘70. Poi i due amuleti di KetefHinnom (VII-VI a.C) scoperti nel 1979, su cui sono incise rispettivamente le parole di Nm 6,24-26 e di Dt 7,9. Poi la stele di Dan, a nord d’Israele, con incisa sul basalto la frase “casa di Davide”. Scoperta nel 1993, è l’importantissima attestazione extra-biblica della reale esistenza del re Davide, che molti mettevano in dubbio e scartavano come fiction. Negli ultimi cinque anni c’è stato un exploit di scavi molto interessanti, in cui sono state importanti anche spedizioni italiane.

Quali sono i criteri che lei consiglierebbe per rendere meno arida la lettura dell’Antico Testamento?

Partirei da una metafora: quella delle ossa aride che il profeta Ezechiele è chiamato a contemplare mentre riprendono carne grazie al suo spirito di Dio (Ez 37). L’Antico Testamento è un textus da rinsanguare; il non credente può gustarlo letterariamente, magari poi fermarsi al piano estetico, oppure può essere affascinato da quello stesso Spirito che il credente ritiene aver ispirato la Scrittura, e la rivifica per chi lo vuole respirare. Ogni lettore deve partire da una sana curiosità, da una passione e dalla meraviglia che è la madre di ogni sapere (Aristotele); solo così può interrogare il testo, ma anche lasciarsi interrogare. Nella lettura sono più importanti le domande che le risposte, perché il suo obiettivo è “dar da pensare” (P. Ricoeur). Leggere si rivela un viaggio attraverso una selva per avvertire i passi nascosti di Dio. In agguato però ci sono tre rischi: a) rottamare l’Antico Testamento considerandolo obsoleto, fiabesco, violento; b) manipolare i versetti in pezze d’appoggio per tesi precostituite o per altri fini; c) considerare la Scrittura come la servetta (ancilla) e non la regina della teologia. L’Antico Testamento non è squalificato dal Nuovo Testamento, ma resta un tesoro nascosto che attende di essere scoperto e compulsato. Antico e Nuovo Testamento sono i due polmoni del credente, il cerchione e la ruota, i due seni, per dirla con i Padri. Personalmente penso che l’Antico Testamento risulti più empatico, per le sue storie storte, crivellate di ambiguità e fallimenti più che di successi, scritto a muso duro, quasi sempre on the road di un popolo errante. Occorrono gli orecchi del cuore nel risentire il palpito di quelle ossa apparentemente calcinate. Non mancano commenti utili come guide; ma attenzione, il rischio è quello di fermarsi alla mappa o menù (leggere quel che si dice sull’Antico Testamento), dimenticando di inoltrarsi e mangiare (leggere direttamente l’Antico Testamento). Vale poi l’adagio non multa sed multum! Si scelgono i commenti essenziali e altri comprovati sussidi (nel web purtroppo si trova tanto ciarpame…) Poi, com’era desiderio struggente di s. Teresa di Lisieux e del Foscolo, sarebbe bello dotarsi di una buona traduzione che ne faccia percepire la poesia, la polisemia e la bellezza (non solo estetica, ma teologica). Però è ineludibile contestualizzare il testo nel suo orizzonte storico, obbedienti alle convenzioni che i narratori instaurano con noi lettori per “plasmarci” come uditori della Parola. Leggere allora diventa rigenerare il testo, abitarlo per esserne abitati. Non si deve procedere solo per flash di versetti, o con antologie, ma occorre “ruminare” i testi nella loro continuità. Il messaggio è nella musica non nelle singole note. L’Antico Testamento predilige la narrazione, non gli asserti dogmatici: non ama spiegare, bensì far intuire; punta sui personaggi, principali e minori, per invitare il lettore a schierarsi, con empatia o distanza. Il racconto non è per i personaggi ma destinato al lettore; a lui tocca colmare le lacune, tracciare i nessi intertestuali (ad es. Giuditta ricalca Giaele), l’alternanza tra canto e discanto. Leggere è entrare in questa complicità, che la Bibbia chiama alleanza. Da qui nasce il “piacere della lettura” (R. Alter) nello scoprire che le storie di ieri restano quelle di oggi, nello scavare dietro le metafore e i simboli che esprimono – mai usurati – la storia complessa di ombre e di luce dell’umano. Allora ci si accorgerà che l’Antico Testamento così emarginato dalle omelie, è più accattivante perché più a pelle. Peraltro è un libro intriso di umorismo e di ironia e il primo a ridere dietro i baffi del narratore è proprio Dio (si pensi a Giona, o a Ester). Va detto che la sacra Scrittura (graphe) non coarta, né congela, né esaurisce la Parola (logos) altrimenti rischia di trasformarsi nell’idolo del fondamentalismo. Il lettore è un rabdomante che fa zampillare significati, e sa intercettare la presenza del regista divino dietro le quinte. Questo leggendo la Bibbia in una mano e il giornale nell’altra. Sono indispensabili tanta pazienza, attenzione per riconsacrare l’ascolto e le parole (è la dimensione “simbolica” di Maria). La lettura è dunque una sfida di Dio, che per i Padri è paragonabile alla lotta di Giacobbe con l’angelo (Gn 32). Solo quando ci si lascia colpire si è vincitori. Provare per credere, “venite e vedrete”, lo scopriremo solo leggendo e vivendo…

Perché nelle università e nelle scuole i testi della Bibbia non vengono letti come testi letterari?

Qui come metafora prenderei quella del rotolo di Geremia fatto bruciare dal re di Giuda (Ger 36). Oserei dire in modo naïf che l’ostracismo o la damnatio Scripturae sono stati causati da motivi prettamente ideologici in molti Stati, tra cui purtroppo l’Italia. In nome di una presunta laicità illuminata – spesso laicismo contraddittoriamente intollerante – la Scrittura è stata demonizzata (!) dalle università italiane perché primo simbolo retrivo e oscurantista del potere papale e clericale. Si è scavato un solco tra cultura laica e cattolica (a differenza della Germania o del Regno Unito). Si è degradato lo studio serio a catechismo per bimbi ed educande di buona virtù… Questo ha condotto insipientemente alla perdita della Bibbia come “Grande Codice” (W. Blake) dell’Occidente, perché come ha ribadito E. Auerbach, Omero e la Bibbia sono i grandi pilastri della cultura occidentale. Anche da non credente, io non posso accantonare la Bibbia. Se non conosco le sue storie ed immagini, come faccio a capire il gioco delle intertestualità a vari livelli artistici? Uno studente ignorante di Bibbia non potrà mai capire Dante, Manzoni, Shakespeare o Eco, la pittura di Giotto o di Michelangelo o Chagall, la musica di Bach o di Cohen, il cinema di Pasolini e di Woody Allen, la poesia di un Rebora o di Turoldo. Inoltre, proprio perché frutto di un’arte narrativa antica è un giardino di simboli antropologici, che ci permette di ritracciare il percorso della letteratura popolare, genere al quale in gran parte essa appartiene. La Bibbia fa paura, e talvolta la colpa è degli stessi cattolici che la rispettano e stimano tanto da non toccarla e segregarla nello scaffale più alto e polveroso. Spesso non la si difende per vergogna, perché manca quel senso di fierezza, di vanto di averla in dono (cfr. Dt 4,5-8). Fa paura perché scomoda, esigente, decentrante: non a caso, per ironia, il secondo biblista dopo l’Altissimo è il serpente nell’Eden e il diavolo delle tentazioni che astutamente vogliono falsificare la parola di Dio, citando una loro conoscenza superiore, per separare il destinatario che è la creatura, dal suo Mittente / Creatore.

I criteri di lettura dell’Antico Testamento che rimandano solamente al contesto in cui sono stati scritti non rischiano di perdere un’analisi della funzione evocativa del testo al momento della lettura?

Qui parto dalla metafora del doppio effetto “Una parola ha detto Dio due ne ho udite” (Sal 62,12). Un testo mantiene una sua distanza nel tempo, ha avuto una sua storia genetica: per capirlo devo situarlo nel contesto che lo ha prodotto, individuare il motivo per cui e soprattutto per chi originariamente è stato scritto, se nel prosieguo ha subito aggiunte, riletture, restauri. Questa ricerca si chiama esegesi diacronica ed ha una sua potenza evocativa. Lo stesso testo oggi mi interpella nella sua stesura finale. Io lo leggo secondo la mia sensibilità, le mie istanze. Questa si chiama esegesi sincronica, cioè lettura in contemporanea ed anch’essa ha una sua forza evocativa. Ora i due metodi sono necessari e legittimi, vanno in simbiosi come processo di affinità e distanza. Creano “una fusione di orizzonti”. La lettura sincronica evita di considerare il testo un oggetto polveroso d’antiquariato, quasi un cadavere in sala d’anatomia. Ma la lettura diacronica, evita di proiettare nel testo quello che non c’è, o di fuorviarne il senso. Umberto Eco avvertiva che un autentico lector in fabula empirico deve interagire con il testo, ma, per farlo, deve essere “competente”; ha dei doveri filologici, per cui deve recuperare per quanto possibile, i codici dell’emittente, possedere le giuste conoscenze che impediscono tradimenti e accomodamenti. Due esempi banali. Nell’Antico Testamento leggo: “Su Edom getterò i miei sandali” (Sal 60,10), non è un gesto di disprezzo o di abbandono, ma indica la presa di possesso o l’acquisto giuridico o bellico di un terreno. In Dt 6,2 leggo: “Ascolta Israele… amerai il Signore tuo Dio, con tutto il cuore, la tua anima, con tutte le tue forze”. Ora chi conosce l’ebraico non confonde in chiave sentimentale, o spiritualizza la frase che ha simultaneamente un deciso senso politico e concreto: ascoltare significa obbedire, non sentire. Amare è l’atteggiamento fedele e leale di un vassallo che non si allea ad altri re: il cuore equivale al cervello, alla decisione; l’anima è il desiderio, la vita, le aspirazioni; le forze sono i beni economici. Questo evita all’es-egesi (“estrarre”) di diventare eis-egesi (“proiettare in”) di non confondere lo Spirito con le proprie paturnie o delirii spacciati per profetici.

La ricerca scientifica dell’Antico Testamento: saprebbe riassumere quali qualità e limiti?

Parto da una massima sapienziale: “Potremmo dire molte cose e mai finiremmo” (Sir 43,27). La ricerca scientifica è un atto di onestà intellettuale, che tutela in base a prove ogni ricostruzione erronea o arbitraria della scrittura. Gli strumenti e il metodo sono uguali per il credente e il non credente. Essa ci aiuta a capire che i testi biblici non sono verità astratte, cadute dal cielo, bensì risposte umane a istanze, problemi, sfide di comunità di uomini e donne che cercavano un senso alla loro esistenza, nei momenti ordinati ma soprattutto di crisi. Spesso alcune contraddizioni, fratture, doppioni (ad es, due racconti della creazione, due decaloghi…) si risolvono se si pensa a due prospettive diverse sul fatto raccontato, che la redazione finale non ha voluto armonizzare, o cancellare. Questo significa scoprire che la Bibbia è una sinfonia, ed ogni voce ha la sua ricchezza. Lutero diceva: “Il grammaticale è veramente teologico”. L’analisi storico-filologica è indispensabile, perché mi fa comprendere la lingua e il mondo dei racconto, dell’autore e soprattutto dell’uditorio originario. Un’ovazione come “Il SIGNORE è un guerriero” (Esodo 15,3), oggi può urtare la mia sensibilità, ma una volta storicizzata, fa baluginare la fiducia di una piccola nazione sempre minacciata da invasioni di molto più potenti. I limiti nascono dal non accettare… limiti! Stanno nel perdere di vista la dimensione relativa della ricerca, nell’arroccarsi in un narcisismo autoreferenziale, che rischia di polverizzare la Bibbia, di negarla ai non specialisti, di contestare altri esperti del metodo, di non incidere sulle questioni pastorali, di non tollerare altri approcci pur utili (come le metodologie citate dalla recente Verbum Domini che cita l’analisi strutturalista, narrativa, decostruzionista, psicoanalitica, sociologica, ecc.). Son queste le accuse, talvolta provate, ma non dobbiamo confondere la bontà del metodo con la non qualità degli interpreti. Esso resta validissimo, a patto di considerarsi una scienza continuamente in fieri, che deve tener conto della sorpresa di nuove e spesso ribaltanti scoperte. Gran parte dell’ebraico del libro di Giobbe, non è del tutto comprensibile e si va per congetture; chissà, forse si scoprirà una tavoletta bi-trilingue che risolverà gli enigmi.
Il limite più grande sta nell’abolire la cooperazione attiva del lettore. Se la ricerca scientifica è un ottimo argine, non può soffocare ciò che lo Spirito detta ai lettori di ogni tempo, ma può verificare la genuinità delle ispirazioni. Come avvertiva la lettera di Giovanni la nostra epoca è un blob di ispirazioni che dicono tutto e il contrario di tutto. L’analisi critica è un ottimo antidoto. L’ultima parola va assolutamente lasciata all’incontro personale con il Dio di Gesù-Verbo. Il testo è uno spartito che prende vita solo quando è suonato. L’interpretazione, tuttavia, è attuazione di una particolare partitura e non di un’altra, e non è neanche pura improvvisazione. Deve essere un dialogo riuscito fra fedeltà al testo e contributo personale. Non si può dire “a me la Bibbia dice” se l’interpretazione non è condotta nell’analogia della fede ecclesiale e magisteriale (lex orandi e lex credendi). Un’esegesi troppo emozionale, ingenua, sprovveduta, fomenta il fondamentalismo e non fornisce nessun alimento solido al popolo di Dio. Una esegesi tecnica deve in ultima analisi ricordare di appartenere anzitutto ad una umanità, poi ad una comunità credente affamate di senso e non di cavillosità. La soluzione è una continua sinergia, nel rispetto delle proprie competenze e responsabilità. P. Alonso Schökel, il mio maestro, amava provocatoriamente dire di guardare con sospetto chi distingueva esegesi “scientifica” da esegesi “spirituale/pastorale”. Per usare un’ultima metafora, la ricerca scientifica in fondo è la Samaritana che, deposto il suo amor proprio, porta i sui concittadini a Gesù: e questi tornano dicendo di averlo conosciuto perché lo hanno personalmente incontrato. Per concludere, val la pena ricordare quanto diceva Chagall: “Io non ho mai letto la Bibbia, l’ho semplicemente sognata”. Faceva da contrappunto a M. Proust, per cui l’autentico lettore della Bibbia, credente o non credente, è “una finestra aperta su un capolavoro”. •
A cura di Carlo Benigni e Luca Riz

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