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Gli anni del seminario: la Parola di Dio e i poveri

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Don Lorenzo Milani (1943- 1947): da signorino che era stato, anche in seminario volle distinguersi scegliendo la povertà

“Cara mamma, stamani sono finiti gli esercizi. I quali consistono in star zitti per quattro giorni e sentire 16 prediche. Lo star zitti sottoscriverei a seguitarlo per tutto l’anno col vantaggio di non dire sciocchezze, ma le prediche per ora mi bastano. Con tutto questo non sono riusciti a levarmi l’allegria anzi mi sono divertito a fare passeggiate di decine di chilometri nel più vario paesaggio come sarebbe p. es. 4 colonne, un pilastro, una curva ad angolo retto e poi invece quattro colonne, un pilastro ecc. Si ha sempre un po’ l’impressione d’essere in un manicomio” (Lorenzo Milani lettere alla mamma 1943- 1967, pag. 10, Arnoldo Mondadori Editore, 1973).

La lettera di don Milani indirizzata alla mamma è del 14 novembre 1943, cinque giorni dopo il suo ingresso nel seminario di Cestello (9 novembre 1943). Il nome “Cestello” è una storpiatura dialettale di Cistercense, l’ordine monastico che, nella prima metà del 1600, si era stabilito in quel punto di Oltrarno (N. Fallaci, Dalla parte dell’ultimo, vita del prete Lorenzo Milani). Nei primi mesi di seminario Lorenzo scriveva spesso alla mamma. Gli premeva assicurarla che stava bene. Trovava che la vita là dentro era “bellissima e allegrissima”, che era un continuo passare “da un bagordo all’altro”, che conduceva insomma una “vita principesca”. In realtà, le cose non stavano proprio così. Il vento di tramontana, che soffiava da monte Morello, s’insinuava gelido attraverso mille spifferi: “Chi aveva la stanza sull’Arno, sentiva salire dal fiume un’umidità ghiaccia che appesantiva le coperte e le lenzuola sul letto”. Le camere erano una via di mezzo tra le celle dei monaci e quelle dei detenuti. Geloni alle mani e ai piedi, tosse, nasi infiammati dal raffreddore erano inconvenienti di routine. Anche Milani si buscò, nei quattro anni di seminario, una serie di bronchiti e una grave broncopolmonite. Nonostante tutto, “I primi tempi del seminario Lorenzo fu un ragazzo molto felice, come l’avevo visto poche volte – racconta la mamma -. La nostra è una famiglia in cui si è sempre avuto tutto, dal pane alla cultura, dal prestigio al gusto delle cose belle. Ma solo in seminario Lorenzo trovò subito ciò che istintivamente cercava con tutto se stesso: una ragione assoluta per vivere, una disciplina costante” (M. Lancisi, Don Milani, la vita).
La mamma non condivideva la scelta fatta dal figlio. Tuttavia i suoi dubbi permisero a Lorenzo di chiarire meglio a se stesso e indirettamente alla mamma la propria vocazione sacerdotale: “Cara mamma, mi dispiace che tu senta il peso della mia mancanza di libertà. Ma non ci pensare, perché io non ne sento punto. Quando uno liberamente regala la sua libertà è più libero di uno che è costretto a tenersela” (Lorenzo Milani, Lettere alla mamma). In seminario qualche compagno faceva letteralmente la fame, non potendo contare sull’aiuto dei genitori. Non era così per Lorenzo Milani. Settimanalmente arrivavano dalla tenuta di Gigliola: pane, olio, uova, formaggio, frutta che Lorenzo provvedeva poi a distribuire tra i compagni di camerata. Questi ultimi, su una sua proposta arrivarono a costituire una sorta di piccola cooperativa. Lorenzo prestava anche i soldi che gli arrivavano da casa. Don Danilo Cubatoli, un compagno di seminario ricorda: “Una volta avevo da comprare un libro e, siccome ero un po’ spento con i soldi, gli chiesi cento o duecento lire che mi impegnai a restituire appena avessi avuto il denaro dal mio babbo. Ebbi ciò di cui avevo bisogno. Una sera, mentre si rientrava da fuori e si era nel cortile, gli restituii ciò che avevo avuto in prestito. Lui si voltò di scatto e rivolto a tutti gli altri, esclamò: Avete visto che avevo ragione io, siete dei poco buoni, avevate detto che non me li avrebbe ridati”.
Lorenzo era dotato di una grande libertà e di una tagliente dialettica che lo facevano amare. C’era però anche chi si fermava alla superficie e non andava in profondità ed allora erano scontri feroci. Ricorda don Raffaele Bensi: “Dovunque trovava incoerenza e contraddizioni, le accusava; era feroce, crudele quasi, di una logica ferrea. Guai a capitare sotto le sue mani. Aveva ragione con tutti”. Don Raffaele Bensi (1896- 1985) che diventerà il confessore e consigliere di don Lorenzo Milani, era molto conosciuto nei licei fiorentini dove era insegnante di religione. Fu uno studente, Carlo Rusconi, diventato poi professore in America, a presentargli Lorenzo Milani nel corso dell’estate del 1942. Un anno dopo, nella primavera del 1943, Lorenzo, che stava vivendo allora il periodo dell’infatuazione artistica, andò a trovarlo nella sacrestia di San Michele in Visdomini, a Firenze. Era passato un anno. Don Raffaele aveva da confessare una ragazza e lo indirizzò da un prete amico, don Mario Lupori che ricorda così l’incontro con Milani: “Vestiva da laico con un bel vestito. Aveva una serie di foglietti in mano con sopra una serie di domanda da neofita, come tenne a precisare”. Le risposte dategli dal sacerdote non persuasero affatto Lorenzo che si rivolse al sacerdote dicendogli: “Si vede che lei non è preparato”. Lorenzo non si scoraggiò. Andò di nuovo da don Bensi che, dopo averlo rivisto, gli chiese se doveva confessarsi: “Non sono nemmeno cristiano”, gli rispose Milani, che voleva solo parlare con lui. Don Bensi non aveva tempo per sedersi a far chiacchiere. Doveva recarsi a S. Quirico a Marignole fuori città, dove era morto un giovane prete, don Dario Rossi, un suo ex alunno. Lorenzo volle accompagnarlo; nel frattempo, in strada gli spalancò la sua anima. “Anche se stava ancora cercando la verità, era già pieno di Spirito Santo”, ricordava don Bensi in un’intervista. Giunti sul posto, mentre don Bensi s’inginocchiò a pregare accanto alla salma, Milani, alla vista del sacerdote morto, disse: “Io prenderò il suo posto”. Questo è quanto raccontato da don Bensi in un’intervista a Enzo Biagi nella trasmissione televisiva del 20 luglio 1971 “III B, facciamo l’appello”.
In molti hanno tentato di trovare le motivazioni che portarono Lorenzo Milani prima alla conversione, poi alla decisione di farsi prete. Joachim Staude, il pittore fiorentino che lo aveva preso come tirocinante nel proprio studio in via dei Serragli a Firenze, in un’intervista rilasciata a Neera Fallaci, così ricorda un incontro che ebbe con Lorenzo Milani quando era già seminarista: “È tutta colpa tua. Perché mi hai parlato della necessità di cercare sempre l’essenziale, di eliminare i dettagli e di semplificare, di vedere le cose come un’unità dove ogni parte dipende dall’altra. A me non bastava fare tutto questo su un pezzo di carta. Non mi bastava cercare questi rapporti tra i colori. Ho voluto cercarli tra la mia vita e le persone del mondo. E ho preso un’altra strada” (N. Fallaci).
Lorenzo era rimasto turbato quando Laura, la cugina Lalla, la sua grande amica dell’infanzia e dell’adolescenza, era entrata in una scuola-convitto per infermiera. Era stata la decisione nata dal profondo desiderio di dedicarsi a qualcosa di utile e di umile. Profonda costernazione suscitò nel giovane Lorenzo la morte del cugino Paolo Milani Comparetti che si trovava come ufficiale a bordo della corazzata Roma affondata dai tedeschi il 9 settembre 1943, mentre si dirigeva a Malta in rispetto delle clausole di armistizio con gli alleati. Un episodio che Lorenzo Milani raccontò più volte ai propri compagni di seminario era quello dell’incontro casuale che aveva avuto con una donna del popolo nel periodo della sua infatuazione per l’arte. Si era in piena guerra. Nelle case dei poveri mancava tutto. Lorenzo Milani, mentre stava dipingendo in un vicolo vicino a palazzo Pitti, tirò fuori un buon pane bianco che proveniva dalla fattoria di famiglia e si mise a fare uno spuntino. “Non si viene a mangiare il pane bianco nelle strade dei poveri”, – lo apostrofò una popolana. Per il giovane Milani fu come aver ricevuto una scudisciata in faccia. Capì di essere un privilegiato.
E decise di mangiare anche lui il pane nero dei poveri. Anche negli anni del seminario, nonostante il luogo fosse davvero da assimilare al proletariato, raccolse una battuta feroce fatta da due servitori che stavano lavorando attorno ad un gabinetto intasato: “Eh, i signori bisogna servirli da cima… fino in fondo”. Da ”signorino” che era stato, anche in seminario volle distinguersi scegliendo la povertà. Così al posto del letto mise una branda. Non volle una libreria ma quattro assi di legno dove riporre i propri libri e al posto delle scarpe indossava dei sandali fatti con i copertoni ritagliati di una motocicletta e tenuti assieme da legacci di cuoio. Anche da prete, a Calenzano prima e a Barbiana poi si guarderà bene di avere qualcosa in più di quanto aveva l’ultimo dei parrocchiani. Quale l’eredità lasciata da don Milani in questa professione di povertà? Ognuno può rispondere tranquillamente ma senza trovare giustificazioni di comodo.

Gli studi, gli amici, i professori del seminario

Anche nel seminario, Lorenzo Milani non si dimostrò affatto un alunno modello nel senso classico del termine. Studiava quelle materie concrete, legate al suo futuro pastore di anime, come la Sacra Scrittura rigorosamente storicizzata e la questione sociale. La parola di Dio e i poveri erano già in seminario il cuore del suo interesse culturale. Aveva molta ammirazione per il domenicano padre Reginaldo Santilli, professore di Sociologia, che predicava il dovere dell’individuo di rafforzare le basi sociali, in nome di un cattolicesimo aperto alle classi meno abbienti. Prendeva splendidi voti, anche nove e otto in teologia pastorale insegnata da don Andrea Bonari sette e otto a patrologia, sette e mezzo nel canto gregoriano. Tutto il resto era orpello, mera accademia, libri da non sfogliare.
Seguiva con molto interesse le lezioni di ebraico, greco e Sacra Scrittura di Enrico Bartoletti, futuro vescovo di Luca e segretario della CEI (Conferenza Episcopale Italiana), definito da Lorenzo in una lettera alla mamma, “uomo e prete di una levatura eccezionale”. Non si faceva intimorire affatto da alcuni professori anzi li attaccava apertamente: “Siete ignoranti, non siete preparati, non capite nulla, il Vangelo non dice questo”.
Don Bruno Brandani ricorda i suoi battibecchi con mons. Mario Tirapani, l’insegnante di Sacra Scrittura: “Tirapani insegnava male, senza leggere nemmeno la Bibbia. Si limitava a dire a chi doveva essere attribuito questo o quel libro. Ma che mi interessano certe cose, diceva Milani. Bisogna leggere il testo, vedere cosa vuol dire. A volte, con la sua logica stringente, faceva proprio come il gatto col topo, ci si divertiva. Il professore rimaneva mortificato o minacciava Lorenzo di mandarlo fuori dall’aula… A me Lorenzo Milani ha insegnato proprio una libertà di vita, senza di lui sarei stato un eterno indeciso, mi sarei trascinato in una schiavitù psicologica”.
Silvano Piovanelli, uno dei compagni di seminario, diventato poi arcivescovo e cardinale di Firenze, ricorda così Lorenzo Milani: “Negli studi si rivelò più avanti di noi che avevamo un metodo liceale. Seguivamo un testo e la spiegazione del professore. Lorenzo aveva invece uno stile di ricerca. Ricordo che quando si studiò l’Eucaristia, lui non si accontentò del testo adottato dal professore ma andò a cercarne un altro, molto bello. Si faceva attrarre dalle materie che gli piacevano e prediligeva la ricerca personale. In questo ci ha aiutato perché ci ha fatto capire che lo studio è anche ricerca. Inoltre Lorenzo aveva una grande capacità di sintesi. Riassumeva le lezioni su alcuni foglietti molto chiari, logici, che utilizzavamo anche noi suoi compagni” (M. Lancisi).
Don Auro Giubbolini, un altro compagno di corso di Lorenzo, così raccontava in un’intervista a Neera Fallaci, sul modo di studiare di Milani: “Durante il Concilio, un vescovo si lamentava con me. Ci riempiono di libri mi diceva. Me li fece vedere. Uno dei volumi, tradotto in italiano come gli altri, era il trattato sull’Eucaristia sul quale Milani aveva studiato di idea sua in seminario. Con una differenza: Milani aveva usato il testo in Francese” (N. Fallaci).
Bella anche la testimonianza di don Renzo Rossi: “Il nostro primo incontro avvenne quando lui faceva il terzo anno di Teologia e io il secondo… m’incantava la sua dialettica. I nostri incontri mi lasciavano sempre un segno dentro, specialmente durante i primi anni del mio sacerdozio. Di fronte alle sue argomentazioni, così profonde e appassionate, che sapevano rovesciare certi valori tradizionali, per scoprirne di nuovi e di profondi, stavo ad ascoltarlo per ore intere. A volte lo detestavo, non mi lasciava mai tranquillo. Mi rovistava dentro, mi cambiava. Poi, senza accorgermene, qualcosa maturava in me e il mio lavoro pastorale ne riceveva beneficio” (N. Fallaci).
Altri grandi amici di Lorenzo Milani negli anni di seminario ma anche in seguito, quando li avrà come compagni di viaggio in difesa dei poveri nelle rispettive attività pastorali, erano don Danilo Cubatoli, don Bruno Borghi, il prete operaio della diocesi fiorentina, scanzonato e dalla forte personalità e don Alfredo Nesi.
I superiori, alcuni non lo sopportavano, come don Mario Tirapani che minacciò di bocciarlo al terzo anno di Teologia perché all’esame lo aveva trovato del tutto impreparato a rispondere alle sue domande che erano dirette a sapere a chi andava attribuito un libro della Bibbia e a chi un altro.
Giulio Lorini, rettore del seminario fiorentino, ebbe nei confronti di Lorenzo Milani atteggiamenti opposti. Negli anni del seminario sbottò davanti a tutti dicendo che la pace sarebbe ritornata in seminario se Milani se ne fosse tornato a casa dai suoi genitori. Aveva esteso questo invito anche a Renzo Rossi, Danilo Cubatoli, Bruno Borghi. Mandare via Lorenzo Milani non era però facile perché “Era un fanatico dell’osservanza delle regole” e i superiori non avevano appigli per muovergli rimproveri. Critico fino nei minimi dettagli e insieme obbedientissimo. Mons. Lorini cambiò opinione nei confronti di don Lorenzo Milani e lo seguì anche a Barbiana con paterna stima e ne fu ricambiato. Un giorno, quando Lorenzo era moribondo, sollevando le braccia quasi a chiedere perdono, dirà: “Signor rettore, io sono stato cattivo con lei. Ma no, Lorenzo, no – rispose don Lorini. Era la sua coscienza delicata che lo rimordeva anche di piccole mancanze” (N. Fallaci).
Padre Reginaldo Santilli, docente di Sociologia, così lo ricordava in una intervista rilasciata a Neera Fallaci: “Non è facile dimenticarlo. Era un allievo molto interessato e attento più che alla nuda lezione, alle sue immediate applicazioni nella vita di ogni giorno. Non era tenero con le disquisizioni teoriche. Le lezioni con lui erano sempre animate anche per il parziale dissenso da parte dei suoi compagni di classe. Quando don Milani era in seminario, certi orizzonti non s’erano ancora aperti. In alcuni casi non si concedeva neppure la lettura dei quotidiani all’infuori dell’Osservatore Romano e, raramente dell’Avvenire d’Italia. L’ondata di rinnovamento e vorrei dire, di riacquisizione di un certo modo di pensare e di agire e venuta dopo” (N. Fallaci).
Ciò che non andava proprio a Lorenzo Milani dell’educazione ricevuta in seminario e lo esprimerà da prete, è per tutto quel mondo in cui le “porcherie si chiamano finemente mancanza contro la santissima purità, la vigliaccheria tiepidezza, l’odio poca carità e la bestemmia un attimo di aridità spirituale”.
Detestava le ipocrisie, i falsi atteggiamenti di umiltà, la mancanza di coraggio. Se qualcosa non gli piaceva lo diceva apertamente. Non sopportava gli esercizi spirituali. Da sacerdote scriverà alla mamma: “Comincio ora a ristabilirmi dagli esercizi. Il predicatore era insopportabile. Ho sentito due prediche intere, alla terza mi sono alzato a mezzo, sono uscito e non sono più tornato. Ho passato gli altri cinque giorni in camera”. Gli Esercizi Spirituali! Se sono fatti, devono servire a farci diventare migliori, non per rimanere quello che siamo. È un invito che ho rivolto più volte ad un parroco di mia conoscenza, che si pone sempre in contrasto con tutti perché scorbutico e arrogante.
Un altro errore di fondo che Lorenzo Milani trovava nella cultura impartita in seminario era che essa rispecchiava le ideologie, le esigenze, l’ambiente, il classismo e spesso gli interessi della classe borghese che lui conosceva molto bene. Era vero che circa l’ottanta per cento dei preti e dei frati venivano da famiglie di operai e contadini, ma era anche vero che “i poveri che hanno studiato con borse di studio e i seminaristi nati poveri, sono tutti, quasi automaticamente passati dall’altra sponda”.
L’errore di fondo del seminario per don Milani “consisteva nel fatto che prendeva i figli dei sottomessi e li sottometteva alla classe dominante. Il seminario sfornava preti umili, obbedienti e pii che finivano spesso per dare lezione di umiltà agli umili. I poveri avevano invece bisogno di qualcuno che li aiutasse a riscattarsi, ad avere la giusta coscienza dei propri diritti e a difenderli con durezza e dignità” (M. Lancisi).
Comunque, passata la guerra, il fratello Adriano aveva combattuto con i partigiani di “Giustizia e Libertà”, Lorenzo Milani con altri dieci compagni di corso veniva ordinato sacerdote nel duomo di Firenze domenica 13 luglio 1947 dal cardinale Elia Della Costa. I novelli sacerdoti erano: Aldo Tronci, Lorenzo Milani, Giuseppe Franci, Aldo Viliani, Giuseppe Padovani, Giovanni Chellini, Ermindo Corsinovi, Renzo Paoli, Amilcare Taddei, Silvano Piovanelli, Giuseppe Tagliaferri. Il giorno dopo, don Milani celebrò la prima messa in S. Michele a Visdomini, la chiesa del suo direttore spirituale. “Era trasfigurato”, racconta don Raffaele Bensi che pensava anche: “Adesso dove me lo mandano questo ragazzo? Se me lo mandano accanto a un parroco che non lo capisce, sono dolori”. Per questo andò di persona da mons. Tirapani che aveva la responsabilità della destinazione dei sacerdoti nella diocesi fiorentina. Gli chiese se c’era la possibilità di mandarlo presso un parroco paterno. Il desiderio di mons. Bensi fu esaudito. Don Milani fu assegnato alla parrocchia di San Donato a Calenzano, retta dal vecchio parroco don Daniele Pugi. •

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