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Una Santabarbara a scuola

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Conosciamo Giuseppe Sartori e il suo racconto da scolaro durante la guerra.

Giuseppe Santori, classe 1932, è una persona con infiniti interessi, nonostante la non giovane età. Usa gli strumenti informatici meglio di un giovane. Si serve di tutti i Social, attraverso i quali è in contatto con mezzo mondo. Non ha mai smesso di leggere. Ha nella sua biblioteca classici latini e greci, romanzi italiani, europei ed extraeuropei, poesie e saggi. Segue alla televisione programmi culturali e documentari in diverse lingue: tedesco, russo, polacco. Dipinge come pochi sanno fare. Anche in questa passione ha raggiunto sempre grandi risultati. Le pareti della sua abitazione sono tappezzate da quadri: natura morta, paesaggi, ritratti. Difficile stabilire in quale genere sia migliore. Per un periodo della vita ha coltivato l’arte dell’intaglio. Dal suo estro artistico sono uscite cornici che fanno l’invidia di un gallerista.
Per una quindicina d’anni è stato radioamatore. Dedicava il tempo libero ai contatti con altri radioamatori di ogni angolo del mondo. Aveva preso il patentino, dopo aver superato gli esami in Ancona. L’attività era regolarizzata con precise norme dettate dalle autorità competenti. In occasione del terremoto che sconvolse la città dorica nel 1972 entrò in contatto con radioamatori d’oltre Oceano, originari di Ancona ed emigrati negli Stati Uniti o nel Venezuela. Volevano avere notizie di parenti rimasti in Italia, se erano vivi o morti a seguito del sisma. Giuseppe, dopo aver chiesto a questi amici lontani il cognome delle famiglie di cui volevano avere notizie, riuscì ad informare e a tranquillizzare tutti. I danni erano stati solo materiali, con edifici lesionati o in parte crollati ma senza vittime.
Oltre a questi interessi, coltivati sempre con passione, è impagabile nella conversazione, nel corso della quale, sempre sobria e pacata, dimostra tutto l’immenso bagaglio culturale di cui è dotato. Vive a Civitanova Marche dal dopoguerra, dopo aver abitato in Ancona e per un breve periodo a Grottammare. Lo conosco da ventiquattro anni, da quando mi sono trasferito a Civitanova dalla Brianza. Ho la fortuna di vivere nello stesso condominio. Abbiamo in comune la scala interna che porta ai nostri appartamenti. In tempi diversi da questi che stiamo vivendo, quando non c’era la regola del distanziamento sociale, spesso andavo a fargli visita, condividendo letture e libri.
Giuseppe, giunge a Grottammare, in casa del nonno materno, nel giugno 1943, al termine della scuola che aveva frequentato in Ancona, città dove abitava assieme al papà che, richiamato alle armi, era stato fatto prigioniero, mentre prestava il servizio militare a Bologna. Dopo l’8 settembre ’43, circondata la caserma, i tedeschi presero tutti i soldati che furono caricati su carri bestiame, destinazione la Germania a lavorare nelle industrie belliche e a scavare trincee in prima linea nel corso dell’intera guerra. La mamma, rimasta sola con tre figli piccoli, l’ultima la teneva ancora in braccio, decide di trasferirsi a Grottammare per i continui bombardamenti notturni cui era sottoposta la città dorica.
Nelle prime settimane del novembre 1943, anche sulla tranquilla Grottammare, improvvisamente si scatena l’inferno. Bombardieri americani, le famose fortezze volanti, sganciano bombe a grappolo nei pressi del ponte della ferrovia e della statale 16, sbagliando tutti gli obiettivi. Sono venti minuti di terrore, tanto dura il bombardamento. Il giorno dopo, da Grottammare Giuseppe e la propria famiglia sfollano nella campagna di Ripatransone, presso una famiglia contadina dove rimangono fino all’estate del 1944.
Ritornato a Grottammare, nell’anno scolastico 1944- 45 frequenta la locale Scuola Elementare. Così scrive: “Dopo un anno intero di scuola perduto a causa della guerra, frequento la quinta classe della Scuola Elementare “Giuseppe Speranza” con il maestro Mario Piergallini del quale mi è rimasto un buonissimo ricordo. Nell’estate del 1944, dopo l’arrivo dell’esercito di liberazione alleato, la parte Ovest della scuola era stata occupata e trasformata in caserma per soldati indiani, indù e sikh, che facevano parte delle truppe del Commonwealth inglese.
Al mattino, nell’attesa di entrare a scuola con gli amici di classe, si giocava ai quattro cantoni. L’area di gioco era delimitata da quattro maestosi platani che adornavano il viale Giuseppe Garibaldi. Altre volte ero attratto ad osservare i Sikh, militari con barbe e capelli lunghi, che all’aperto, dopo averli pettinati e raccolti, li avvolgevano e coprivano con turbanti coloratissimi.
Una Santabarbara a scuola.
La cosa che più mi interessa raccontare ora, è quasi incredibile. Dietro alla scuola c’era il parco della rimembranza dal quale si poteva entrare nel piano terra dell’edificio adibito a magazzino. Le truppe avevano riempito il locale di armi e munizioni di ogni specie: cartucce per mitra, fucili, bombe a mano, tritolo e altro. Non avendo più spazio, molte cassette piene di munizioni furono accatastate sul muro esterno, incustodite.
Alcuni miei coetanei più intraprendenti ne approfittavano per sottrarre qualche scatola di proiettili per poi smontarli e ricavarne piombo, ottone, polvere da sparo e soprattutto capsule, piccoli cilindretti di metallo contenenti una polvere speciale. Questi piccoli congegni, messi sotto il tacco delle scarpe e dando con l’altro piede un colpo laterale, esplodevano per sfregamento, facendo un gran rumore ma senza procurare danni. Una mattina, mentre giocavamo a calcetto nel marciapiedi di fianco alla scuola, un amico ricevette una pallonata nella tasca dei pantaloni, dove aveva una scatoletta di latta tipo portasigarette piena di capsule. Andò bene, tutto finì con un gran botto e qualche piccola bruciatura. Oggi sarebbe inconcepibile una cosa simile. L’incoscienza propria dell’età e la voglia di divertirci ci invogliavano a fare queste bravate”. •

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