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Il “Vieni e vedi” di san Giovanni Bosco

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FRAMMENTI DI STORIA SALESIANA

I ragazzi dei cantieri
Don Giovanni Bosco, diventato sacerdote, entra nel Convitto Ecclesiastico di cui era direttore don Giuseppe Cafasso. Questi era solito dirgli: Se vuoi diventare un bravo prete, vai per le strade di Torino, guarda, osserva e ascolta. Don Bosco fa di questo invito la costante della propria vita. Rasentando le case in costruzione, nei giorni di lavoro, don Bosco vede “fanciulli dagli otto ai dodici anni servire i muratori, passare le loro giornate su e giù per i ponti malsicuri, al sole, al vento, alla pioggia; salire le ripide scale a pioli carichi di calce, di mattoni e di altri pesi, senza altro aiuto educativo, fuorché villani rabbuffi o scapaccioni” (Cfr. M. Rua, Summarium, pp. 57, 58). La giornata lavorativa andava dalla primissima alba alla notte. Il vitto, a mezzogiorno era a base di polenta. Il companatico era rappresentato abitualmente da un pezzo di formaggio o dalla ricotta. Alla sera, i piccoli “muratorini” mangiavano una minestra di pasta, riso o verdura; talvolta un po’ di insalata. Il vino, riservato per i giorni festivi, lo si beveva di solito all’osteria. Molti giovani muratori erano immigrati stagionali. A sera, ritornati a casa, non avevano nessuna famiglia che li stava ad aspettare. Convivevano a decine, e su magri salari dividevano le spese dell’affitto e della polenta in comune. Il primo che arrivava dal lavoro accendeva il fuoco ed appendeva il paiolo con l’acqua. Il poco companatico arrivava da casa ogni quindici giorni, a mezzo del conducente che portava la sacca del pane nero e degli indumenti puliti e ritirava la sacca della biancheria sporca” (Cfr. Teresio Bosco, don Bosco, storia di un prete, pag. 85, Elledici, Torino 2006).

Nelle carceri: adulti, ragazzi e pidocchi
A Torino, don Bosco non solo fa la conoscenza dei giovani spazzacamini, dei piccoli operai e apprendisti, giovani muratori ma anche dei giovani carcerati. Nella capitale del Regno Sabaudo, il sistema carcerario è disastroso. È una piccola università del crimine. Carlo Alberto ne è cosciente, per questo incarica Cesare Balbo di migliorarlo: “Le comunicazioni che i carcerati, colpevoli e innocenti, hanno tra loro, in una promiscuità di rapporti tra giovani ed adulti, accelerano i progressi di corruzione. Il contagio morale è talmente accertato che generalmente si crede nell’impossibilità di colui che entra innocente in prigione non ne esca pervertito”. Don Bosco scende più volte nelle carceri vicine al Senato in compagnia di don Cafasso, cappellano del penitenziario, ma anche da solo. Conosce le storie dei piccoli delinquenti che alla scuola dei carcerati adulti, diventano a loro volta delinquenti veri e propri. Si fa promettere loro che una volta fuori dal carcere vadano a trovarlo e lui li aiuterà a trovare un posto di lavoro. Da quelli stanzoni, don Bosco non esce da solo. Una sera, il barone Bianco di Barbania che l’ha invitato a cena, vedendogli sulla spalla uno schifoso pidocchio, gli dice: “Voglio dare una cena a lei, don Bosco, ma non ad altri”. Ma don Bosco non è uno che tiene alle etichette e nemmeno i pidocchi riescono a preoccuparlo. Scrive su questi nuovi suoi amici carcerati: “Questi ragazzi dovrebbero trovare un amico che si prenda cura di loro, li assista, li istruisca, li conduca in chiesa nei giorni di festa. Allora forse non tornerebbero a rovinarsi”. (Cfr. Teresio Bosco, Don Bosco, Storia di un prete, pagg. 93, 94, 95, Elledici, Torino 2006).

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