Essere “in” o “fuori” tempo

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anziano“Toccare la soglia degli ottanta anni è un traguardo che, chi vive nei paesi industrializzati può ambire a raggiungere. Ma dalla società, amplificati dai media, arrivano segnali poco rassicuranti per chi invecchia: assistenza sanitaria scadente e punitiva, estromissione dal nucleo familiare, totale dipendenza dagli altri, perdita delle capacità intellettive. È proprio così tragico essere anziani?”.

Peter Laslett, Una nuova mappa della vita, Il Mulino, Bologna, 1992.

Nella maggior parte delle società stanziali a tradizione orale, in cui era sentita la necessità di insegnare e tramandare conoscenze e cultura, gli anziani erano oggetto di rispetto reverenziale e di grande considerazione in virtù della loro saggezza e memoria storica. Nella nostra società, invece, dove si guarda più al futuro che al passato e dove la conoscenza e la trasmissione culturale si avvalgono in gran parte di strumenti tecnologici, gli anziani sono percepiti prevalentemente come un peso. Non solo la loro considerazione sociale non può incrementarsi a causa della subita espulsione dal mondo produttivo, ma la dimensione esistenziale riceve rispetto solo se l’anziano riesce a riciclarsi incarnando un qualche modello di attivismo giovanile. Questa necessità culturale sa spesso di caricatura. Il loro sapere non conta più e la stessa condizione dell’anziano subisce un insidioso deficit simbolico.

Fino a quando si è giovani? quando si diventa vecchi? I criteri e i pareri si diversificano: un demografo utilizzerà parametri differenti da uno psicologo, perché assai diverse sono le loro finalità. Inoltre, l’aspetto fisico, l’attività svolta, le abitudini di vita valgono da punto di riferimento per decifrare l’età e spesso contano più di un criterio puramente anagrafico. Lo stesso criterio anagrafico, del resto, è mutato nel tempo in relazione alle aspettative di vita, cosicché lo stesso concetto di giovinezza si è assai allungato temporalmente invadendo anche sfere che fino a qualche decennio fa erano considerate parte dell’età matura. Lo stesso può essere detto per la condizione anziana: oggi chi ha sessant’anni si sente praticamente di mezza età perché i centenari abbondano. Si aggiunga che i giudizi sull’età cambiano in rapporto ai contesti di riferimento: se un calciatore è ritenuto anziano già a trentacinque anni, un senatore di quarantenne è considerato giovane.

Le persone si creano aspettative piuttosto precise circa il timing degli eventi nel loro ciclo di vita, una specie di “orologio sociale” che dice loro se sono “in” tempo o fuori tempo, cioè “out”. La percezione di essere fuori tempo – ossia di agire e pensare in modo discordante rispetto alla propria età anagrafica – provoca un certo malessere poiché abbassa il livello di autoefficacia. Effetti simili possono manifestarsi quando si crea una discrepanza tra i tempi in cui ci si aspetta che accadano determinati fatti e i tempi in cui questi poi effettivamente si realizzano. Varie ricerche hanno dimostrato che una donna che diviene nonna anzitempo, così come una persona che perde prematuramente un genitore, manifestano livelli più alti di stress rispetto a coloro che vivono le stesse esperienze quando le attendono, costruendovi sopra un preciso orizzonte di aspettative. L’età appare come una prerogativa di primaria importanza non solo nella percezione degli altri, ma anche nella valutazione di se stessi, poiché è uno dei fattori che la gente usa per differenziarsi dagli altri e stabilire a quale categoria appartenere socialmente.

Si definisce “identità legata all’età” quella idea di se legata all’appartenenza a una determinata categoria di età. Cambia molto da persona a persona il modo di decidere quale sia la propria categoria di appartenenza; tuttavia si considerano generalmente tre dimensioni dell’età: una più strettamente psicologica (percezioni riferite alle proprie capacità cognitive), una fisica (auto-percezione della propria corporeità e salute) e una sociale (riconoscimento delle proprie attività sociali, dei propri interessi e valutazione del trattamento che gli altri ci riservano). In base al grado di percezione che ci riservano gli altri rispetto a queste tre dimensioni, abbiamo più o meno desiderio di rimanere in una determinata fase della vita o magari di abbandonarla. Allora una persona anziana mostrando segni di stanchezza, ma desiderando di restare attiva, piuttosto che ri-motivarla, magari assegnandole compiti diversi o più interessanti, si vede licenziare e demolire il senso di autoefficacia, subendo il disinvestimento su di lei che limita drasticamente le sue competenze.

Questa è una strada – la più tragica, aperta sul piano delle responsabilità – per far convincere l’anziano di essere inutile. Oggi la crisi economica riporta l’anziano a riconquistare una posizione centrale nelle famiglie ridefinendolo contributore essenziale nei magri bilanci domestici, spesso devastati dalla scarsa occupazione. Ma si tratta di una riabilitazione casuale e, pur nel dolore patito per la marginalità, incapace di ricreare ciò che più interessa a chi ha il passato come risorsa, cioè la possibilità di dare voce alla sua storia incontrando l’amore ed il rispetto di chi, del tempo, è costretto a vivere spesso l’aspetto più esteriore: la fretta. •

Rossano Buccioni

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