La forza di un simbolo che non smette di parlare al cuore delle persone
Buon Natale. Con questo numero cartaceo la Redazione de La Voce delle Marche porge i migliori auguri di pace e serenità, di gioia e di coraggio, di luce e di pazienza a tutti i lettori.
La forza del presepe. Parole sul Natale, è il titolo di un libro pubblicato in Argentina nel 1987 quando Papa Francesco era ancora solo padre Jorge Mario Bergoglio. Il Natale, vi si legge, richiama una scelta decisiva: «Pensando alla nostra fortezza e alla nostra debolezza, potremo chiedere la grazia di non riporre la debolezza in cose artificiali che, alla lunga ci arricchiscono secondo il mondo; e non riporre la forza lontano dai piani di Dio». Uno dei simboli del Natale è proprio il presepe, che dà il titolo al libro. Scrive ancora Bergoglio: «Nel contemplare il presepe, la grazia più ovvia che ci verrà donata sarà la voglia di essere buoni. Gesù ci insegna una strada per essere buoni: lasciarci compenetrare dall’insondabile mistero della Bontà del Padre». La tenerezza del presepe non richiama mondi infantili e filastrocche. Piuttosto, Betlemme è una scena di servizio estremamente concreto dove Maria, Giuseppe e chi contempla la scena della Natività sono chiamati a servire.
Ecco come la forza del presepe innesca un processo, fa iniziare un cammino verso Dio. Dio, centro dell’universo, si è fatto bambino in silenzio e in una periferia dell’Impero romano. Si manifesta a pastori che vivono e sperimentano la periferia della vita. Quella periferia, reale e metaforica, che il Papa conosce sin dai tempi di Buenos Aires e nella quale affonda le radici la sua Chiesa “povera e per i poveri”.
Bisogna però anche prendere atto che il presepe non è più scontato per molta gente. Il processo di secolarizzazione non si è fermato neppure davanti al presepe. La società ha preso da tempo le distanze dalla religione, non solo impedendole ogni pubblica manifestazione e creando un mondo in cui Dio non si trova, ma anche sviluppando criteri di giudizio e atteggiamenti sociali direttamente e sistematicamente contrari alla fede cristiana e in particolare cattolica. (In Francia stanno cambiando la toponomastica dei paesi che richiamano un santo, cfr IL FOGLIO, sabato 10 dicembre).
Va osservato che del presepe viene contestata la costruzione nei luoghi pubblici. Il senso è preciso: la fede può essere al massimo tollerata come fatto privato. Il presepe va fatto in casa e non in piazza. È la privatizzazione della fede religiosa, che la laicità occidentale vanta come unica propria fede.
Occorre osservare però che la nostra storia, la nostra vita sociale, i nostri criteri morali, le nostre abitudini, le opere d’arte affondano le proprie radici nel cristianesimo. L’Italia non sarebbe se stessa senza le proprie radici cristiane che sono ben visibili ovunque. È legittimo e doveroso far valere questo argomento storico e di identità contro quanti sostengono che, invece, per convivere con gli altri, ci si dovrebbe spogliare delle proprie tradizioni e di quanto esse ancora oggi ci danno. L’accoglienza e l’integrazione non si fanno nel vuoto e a volto coperto.
Se le radici cristiane vengono difese solo per motivi storici o culturali, può venire il momento che le nuove generazioni non siano più sensibili alla propria storia passata, alle proprie origini culturali o che, addirittura, diventino incapaci di leggere i segni della presenza cristiana attorno a noi. È proprio tra le bellissime basiliche gotiche della Francia che alligna il nuovo ateismo. Un giovane, oggi, non possiede le più elementari nozioni teologiche per poter leggere una pala d’altare, un affresco o un fregio. La nostra storia cristiana può diventare muta. Non può essere solo il “come eravamo” o il “è da lì che noi proveniamo” a salvarci dalla secolarizzazione che secolarizza anche il senso del passato come il senso in genere e non solo il senso religioso.
Il presepe, come ogni altra manifestazione pubblica delle fede cristiana, ha diritto ad essere mantenuto non solo perché lì ci sono le nostre origini, ma perché è vero. È solo la verità della religione cristiana a valere come titolo ultimo del suo diritto ad una presenza nella pubblica piazza. Questa religione, più di ogni altra, contribuisce al bene comune. Per questo il potere pubblico dovrebbe difendere, esso stesso, il presepe o qualsiasi altro simbolo di quella fede. Senza il Bambinello siamo tutti più poveri. Anche i potenti della terra. Le tradizioni muoiono se non sono continuamente rivissute. Cristo non è una tradizione anche se la Chiesa ha una tradizione.
È una tradizione viva che si fonda sulla reale presenza di Cristo nella sua storia. Ora il presepe rappresenta tale presenza. Le autorità politiche non riusciranno a impedire il presepe, anche se ciò non toglie che si debba lottare perché non lo facciano. Non riusciranno nemmeno a difenderlo dalla secolarizzazione, anche se non possiamo esimerci dal richiederglielo. Ciò che conterà, alla fine, è che Cristo sia vissuto come Vero e come Vivo dai cristiani. Non solo come Vivo, ma anche come Vero, perché su questo si fonda la sua pretesa di essere presente nella pubblica piazza. •
Bonnatà.
Dopo lu terremotu,
‘nse sente na campana,
chi sa se ce fa casu
la religgiò nostrana;
‘nci sta chi ce rallegra
lu jornu e a mezzanotte,
le chiese è tutte rotte
a ‘nce se pò bboccà.
—
Quist’annu, Cristo caru,
scì fatto ‘na frittata,
de santi e de madonne
‘gni chiese dè sbracata;
bbisogna che vai a legge
l’avvisi su le porte,
se voi sapé la sorte
su dove poi llogghià.
—
Ma penzo a la speranza,
se cali da lu cielu,
che ‘rnasci su sti posti
framezzo a lu sfracelu;
ché se ta vasta solo
lu core pe’ capanna,
‘nce serve tanti osanna
pe’ dacce un “Bonnatà”.
Marino Miola
Natale 2016