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Chiese “assassinate” dal terremoto

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Non si possono ricostruire le chiese. Una copia non è l’originale. Secoli di incontro tra Dio e uomo

Il mondo della fede è intensamente abitato da un mare di storie e di cose: un mare che non è mai freddo o solitario, ma vitale, avventuroso, affollato nei secoli di fedeli e sacerdoti, di canti, di voci, di suoni. Altrettanta splendidezza c’è nell’amore espresso dalle opere d’arte: architetture, pitture, sculture. Amore fisicissimo e spirituale insieme, pregno di odori, che non potrebbero esistere senza i corpi dei fedeli.
Penso a questo mentre guardo le riprese dei templi e degli oggetti che il terremoto ha distrutto o danneggiato nell’alto Nera. Vedo a Castelsantangelo sul Nera la torre del campanile di Santa Maria di Castellare sbriciolata e la chiesa in parte crollata, una porzione della chiesa di San Martino dei Gualdesi squassata e il campanile danneggiato, la chiesa e l’antico monastero di San Liberatore circondati da rovine, la chiesa di San Vittorino di Nocria crollata, crollato pure il campanile della chiesa di Santo Spirito, danneggiata la chiesa di San Sebastiano, crolli nelle chiese di Sant’Antonio e di San Giovanni a Macchie e in quelle di San Martino e Santa Maria della Piazza a Gualdo. Vedo a Ussita l’abside della chiesa romanica di Casali rovinato, la Pieve di S. Maria danneggiata, i vigili del fuoco che si calano nella chiesa di Santa Reparata di Vallestretta per recuperare tele e oggetti sacri. Vedo a Visso il rosone e la parte superiore della chiesa di San Francesco caduti, la chiesa di Sant’Agostino e l’abside della Collegiata danneggiati, il campanile della chiesa di San Giacomo cascato, l’interno della chiesa di Villa Sant’Antonio coperto di macerie e le campane, una caduta e l’altra inclinata, che non suoneranno più.
So che molti osserveranno: cosa importa? Sono edifici come tanti altri. Sono cose: pietre, legni, mattoni, bronzi. Soltanto cose. Conta semmai la moltitudine di persone che vi hanno pregato e non sono più tra noi.
Invece per me questo spettacolo è straziante. Mi obbliga a guardare al futuro e nello stesso tempo mi lega al passato e al trapassato. Ho provato lo stesso impulso quando il terremoto ha distrutto parte della volta della basilica di San Francesco e il crocifisso di Cimabue ad Assisi, o quando i talebani hanno colpito le grandi statue di Buddha in Afganistan e le milizie jihadaiste dell’Isis hanno cancellato i tesori di Palmira, patrimonio dell’umanità.
Come un brivido, un tremore davanti a qualcosa di insopportabile: la stessa emozione che provò Proust quando scrisse “In memoria delle chiese assassinate” e “La morte delle cattedrali”.
La religione cattolica non è soltanto la fede che la vivifica: non è soltanto la Bibbia, i Vangeli, gli scritti intorno a Dio, Gesù, lo Spirito Santo, la Madonna. Il cattolicesimo è anche le cattedrali, i santuari, le chiese, i campanili, le cappelle, i tabernacoli, i fonti battesimali, le statue, le campane; e le liturgie, i sacramenti, le parole e i canti dei fedeli che hanno risuonato nei secoli.
Nessuna religione può vivere se cancelliamo gli aspetti formali, né può essere pensata senza questa raffigurazione incessante. La verità è che noi non abbiamo il dominio materiale di una religione. Possediamo le cose con le quali cerchiamo di continuo, forse inutilmente, di darle un aspetto. Non riusciamo a perdere il ricordo dei tanti muratori, scultori, pittori, falegnami che hanno edificato il tempio di Macereto, le pievi di Mevale e di Fematre a Visso, le chiese romaniche di Santo Stefano a Castelsantangelo sul Nera e dei Santi Vincenzo e Anastasio a Casali di Ussita, consegnando un corpo vivente al cattolicesimo dell’alto Nera. Questo alito religioso, che spesso non riconosciamo, è stato elaborato da Filippo Salvi, Battista Lugano, Paolo da Visso, Simone de Magistris, Gaspare, Camillo e Fabio Angelucci, dai petraioli vissani e dai maestri lombardi che hanno cercato con tutte le loro forze di esprimere l’inesprimibile. Architetture e volti.
Atmosfere mistiche e tagli di luce. Odore d’incenso, anche quando l’incenso non c’è. Altari, dunque preghiere. E organi, dunque note che volteggiano. Una visione incastonata in una mappa artistica e sonora, un luogo tutto ricamato da figure mistiche e musiche antiche.
Non riusciamo ad accettare la fine delle chiese, “assassinate” questa volta non dall’uomo ma dalle forze della natura. Neppure credo che possiamo rimpiazzarle. Forse sono la stessa cosa l’originale e la copia? Ecco perché non possiamo costruire nuove chiese e perché ogni chiesa è il territorio di una sfida che si fa spettacolo e cerimonia: una rincorsa di secoli e millenni fra l’umano e il divino, fra l’anima laica e lo spirito religioso, fra la leggerezza e la potenza, fra il limite terreno e il trascendente. Nessuna dimensione nuova può raccontare quella precedente, fatta di storia e tradizione, esigenze artistiche e fughe nel visionario. Sarebbe come offendere la memoria di chi le ha create. Ecco perché cerchiamo di allontanare quell’aura di perdita e di distruzione di una chiesa che nessuno può accettare come ineluttabile.
Ecco perché dobbiamo restaurare e conservare, finché è possibile, quello che è stato danneggiato, in modo che nessuna memoria vada perduta. La religione cattolica non perirà a causa di questo terremoto. La fine delle forme esteriori è solo una fine fittizia. Rimangono i Vangeli, i libri, le liturgie che nessuno può cancellare. La distruzione delle chiese deve spingerci però a rileggerle in ogni particolare, in ogni storia, in ogni verbo, cercando di comprendere quello che volevano dire. Una lettura che mantiene, fra diversi linguaggi e un libro immobile, la promessa dell’inizio: niente è più saldo e niente è più variabile di una religione che si esterna nelle cose, nelle testimonianze concrete di pura fede. •

Valerio Franconi

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