A Santa Vittoria in Matenano le monache hanno distintamente avvertito il terremoto. Solo in chiesa c’è qualche rigatura. Nessun crollo nell’edificio dedicato a Santa Caterina. La struttura ha retto. Era stata consolidata da nemmeno troppo tempo. Ad impaurirsi soprattutto sono state le suore nigeriane. Non sono abituate. Le nostrane conoscono i sismi. I Sibillini ce le hanno abituate.
A Monte San Martino è andata un po’ peggio. Quattro locali del monastero, anch’esso dedicato a Santa Caterina, sono inagibili. Lo scrollone è stato veramente forte. Le “sorelle” non indossano il consueto abito nero. Ne portano uno celeste: forse da lavoro, forse quello estivo. Consueto è invece il sorriso. E l’accoglienza.
Hanno portato i materassi nel vecchio e solidissimo refettorio, uno accanto ad un altro, suore giovani e suore anziane: tutte insieme.
Ad Amandola ho l’impressione che la gente per strada e nella famosa pizzeria lungo la salita che porta al teatro la Fenice, al Parco, all’Albergo, parli sottovoce, come per un pudore, un rispetto, una mestizia. Qui è andata bene. A qualche decina di chilometri oltre i monti invece la tragedia. Le radio aggiornano il bollettino dei morti. Oltre 260.
Nastri bianco-rossi dovrebbero impedire l’ingresso lungo la via che conduce al monastero. A terra molti calcinacci. Una abitazione ha una specie di grosso foro sulla parete del secondo piano. Si vede il retro di un armadio, il lampadario ed il soffitto intatto. La parete è come se fosse stata colpita da un proiettile. Incredibile, anche perché la struttura sembra semi-nuova.
Percorro la strada tenendomi al centro. Percepisco un gradevolissimo profumo di lavanda. Mi inonda. Un odore che rallegra dinanzi alla tristezza della facciata della chiesa che s’è piegata sulla strada, e pencola pericolosamente su di essa.
Seguo il profumo. Sulla destra, dietro ad un portone in ferro, si apre un giardino stupendo. Incantato, imprevisto. Decine e decine di fiori ordinati e di erbe selezionate. Fa parte del monastero, di quella che non è stata colpita dal sisma. A terra, una montagnola di lavanda. Servirà per far sacchetti per la casa e la biancheria. Due signore ci stanno lavorando insieme ad una suora anziana. Una più giovane, di colore, nigeriana, sta trasportando una vecchia singer per cucire e una base dove poggiarla, con tanto di ruota e pedale. Do una mano.
La madre badessa ha il volto cadaverico. Non ha dormito. È preoccupata ma non rassegnata. Si chiede cosa il Signore vorrà da loro. Cerca di interpretare i segni. La Comunità intera ha recitato il rosario come suggerito da Papa Francesco. Le morti di là dei monti sono nella mente, nelle parole e nelle preghiere delle suore di qua.
In una stanza risparmiata dell’ala nuova, una giovane insegna lingua italiana a suore straniere. È arrivata ai pronomi.
Montefortino è stata colpita più duramente. Il Santuario della Madonna dell’Ambro è chiuso. Il sindaco ha deciso così fino a dopo l’ispezione che dovrà verificare i danni al soffitto e forse al tetto. È accessibile la parte più antica, quella della cappella della Vergine con il Bimbo sulle ginocchia. Ci sono persone alla messa delle undici. Vengono da Civitanova Marche. Hanno portato pesce come dono ai cappuccini.
Padre Gianfranco Priori, il rettore, mi indica i distacchi del gesso dal soffitto. La notte della scossa la navata era piena di polvere, impossibile vedere per qualche decina di minuti.
Fuori dal Santuario ci sono pellegrini e turisti. La porta principale è chiusa. Entrano da quella laterale: la “Porta Santa”. Anch’essi pregano per le vittime, per il dolore, per lo strazio nel Lazio, nell’Ascolano, in Umbria.
Nei momenti peggiori le persone ritrovano la loro profonda umanità.
Domani si tornerà a ricostruire. Sarebbe bello non scordare questo sentimento.