Le faglie della Memoria

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“Il terremoto che ha portato via le case, rischia di demolire i ricordi; è compito primario coltivare la vita della memoria e la nostalgia del futuro, viatico essenziale a una meno remota ricostruzione materiale quando supportata da una ricostruzione morale” (Cfr. Le faglie della memoria. La comunità di San Martino di Fiastra tra nostalgia del passato e volontà di futuro, a cura di Agata Turchetti, pag.25, Incontra, Fermo, Marzo 2017).
San Martino è una delle tante frazioni di Fiastra, comune in provincia di Macerata.
È la località di nonna Peppina, Giuseppina Fattori Turchetti, la mamma di Agata e Gabriella Turchetti. Di lei hanno parlato la stampa e la televisione nazionale per essere stata sfrattata dalla casetta di legno e costretta a vivere in un container dopo il terremoto, essendo stata dichiarata la propria casa inagibile.
Il libro è un canto a più voci di quanti sono nati nella piccola località marchigiana, vi hanno vissuto gli anni della propria infanzia e della propria giovinezza o vi hanno trascorso indimenticabili soggiorni, ubriacati dagli splendidi paesaggi mozzafiato:
“San Martino di Fiastra chiude su orti, pollai e comignoli, appoggiandosi su sfondi lontani di alture, talaltra di spazi che scivolano verso il basso, o ancora si dilatano improvvisi, quasi a percuotere il cielo… Ci vuole tempo per capire la natura del luogo. Un museo della natura, un po’ foresta un po’ orto botanico, si rivela ospitare una incredibile varietà di specie animali”. “Questo libro, nato dalla vicinanza dolente di persone generose, vuole raccontare la tristezza di ieri e di oggi ma anche la speranza, non fondata su parole vuote e promesse da marinaio, di tornare”.
Il sisma del 23 e 24 agosto 2016, avvenuto di sera e di notte, trova molti ancora in strada, a Moreggini, una delle tante frazioni di Fiastra, assieme a Colli, Bolognesi, Fiegni.
Un ossimoro serve più di ogni giro di parole a fotografare la devastazione portata dal terremoto:
“Il rumore che li riassume tutti è quello del silenzio che regna incontrastato lungo le strade e nei paesi deserti, in intere aree nelle quali la natura ha ripreso il sopravvento sull’uomo e sulle sue opere”.
La sera più lunga per Lauretta, dirigente scolastico reggente dell’Istituto Comprensivo “Giovanni XXIII” di Mogliano, è quella del 26 ottobre 2016. Sono le 19,10 quando arriva una forte scossa di terremoto.
È in corso una normale riunione degli Organi Collegiali della scuola. Chiusa la seduta, Lauretta si precipita in macchina verso Matelica nella sua seconda casa, dove abita la propria famiglia.
Una telefonata la raggiunge all’altezza dell’Abbadia di Fiastra.
È la segretaria dell’istituto Comprensivo “Don Bosco” di Tolentino, dove è dirigente scolastico titolare. C’è la necessità di effettuare un sopralluogo presso il Villaggio Scolastico, sede dell’istituto, per verificare i danni causati dal terremoto di poco prima.
La nuova scossa delle 21,18 la coglie di fronte al portone della scuola, sotto al balcone che lo sovrasta:
“La mia macchina parcheggiata ad un passo da noi barcollava da un lato all’altro come scossa da gruppi di uomini che volessero saggiarne le sospensioni, i lampioni della via attaccati ai loro fili si agitavano proiettando a destra e a sinistra lampi della loro luce gialla, rumori di muri cadenti, urla di persone provenivano dal centro storico della città e rendevano la scena spaventosa e più simile ad un incubo che ad un frammento di vita reale”.
La mattina presto del 30 ottobre 2016, il terremoto fa davvero paura:
“La terra ondeggia sotto i piedi. Zolle come onde del mare. Impossibile mantenere l’equilibrio. Mi sento perso, immobilizzato dal terrore di una natura isterica ed epilettica che mi aggredisce. Ecco come ci sentiamo in questi giorni. Petali strappati. Fragili e incapaci. Crollano case, palazzi, certezze, storie, vite, ricordi, sogni, progetti. Crolla il pranzo domenicale dai nonni, coi parenti e gli amici”.
C’è rammarico ma anche volontà di resistere:
“I mercatini, i concerti, i convegni si sarebbero dovuti svolgere nei luoghi, dove il sisma, con più ferocia ha aggredito abitazioni e attività produttive, per dimostrare che lì la vita non è finita, che quelle comunità potevano continuare ad esistere e resistere”.
Belli i versi della poesia Ma loro non se ne vogliono andare:
“Il terremoto ha devastato le loro stalle,/ ma loro non se ne vogliono andare. /Il terremoto ha danneggiato i loro attrezzi, /ma loro non se ne vogliono andare/ Il terremoto ha fracassato le loro case, /ma loro non se ne vogliono andare/ Verrà il freddo, verrà la neve, ma loro non se ne vogliono andare/. Il terremoto ha spezzato il loro cuore, / ma loro non se ne vogliono andare. /Il terremoto ha spezzato il loro silenzio, /ma loro non se ne vogliono andare. Il terremoto ha impresso la paura nei loro volti,/ ma loro non se ne vogliono andare”.
Sono versi che richiamano Martin Niemöller, Edgar Lee Master in Antologia di Spoon River ma anche pagine indimenticabili di Cesare Pavese:
“Un paese ci vuole, non fosse per il gusto d’andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”(La Luna e i falò, Einaudi, Torino, 2014).
Gabrielle, sorella di Agata, ricorda: la casa di Umberto, venuto dalla Germania, la scelta di Ida nella casa prima che venisse Umberto, la casa della signora maestra (sora maè), quella casa era la sua casa, in quella casa non c’era il bagno, il palazzaccio, non c’era una sola casa con l’arco, lei non conosceva il feng shui (antica arte geomantica taoista). Sono paragrafi intrisi di ricordi velati di nostalgia, prima che “all’orco (il terremoto) erano bastati pochi scuotimenti per prendersi i fiori alle finestre, i ritratti dei vecchi e vomitare tante di quelle pietre da farne una tomba sulla strada”.
In altri paragrafi del libro, la stessa redige quasi una sorta di diario del terremoto dal 4 settembre 2016 al 1 gennaio 2017; sono pagine nelle quali annota la desolazione dei luoghi abbandonati da chi vi abitava. “Restano solo gli alberi, quelli che altrove morirebbero senza radici”.
Laura, romana d’origine, era rimasta conquistata dal paesaggio dei Sibillini in un autunno di venti anni fa, all’epoca del terremoto che aveva attraversato le Marche e l’Umbria. Era rimasta affascinata dalla “dolcezza del paesaggio di colline e poggi che lasciava scorgere in lontananza l’sprezza delle montagne, la bellezza dei borghi dalle case in pietra chiara e rosata, l’esplosione dei colori che l’autunno aveva disseminato nei boschi che attraversavamo in auto o a piedi e in quelli che potevamo vedere girando intorno lo sguardo… i Monti Azzurri del mio amato Leopardi diventavano davvero di quel colore, grazie al contrasto con i rossi raggi del sole e ad una leggera foschia”. “Il mostro che da sempre lì alterna periodi di sonnolenza ad esplosioni di incontenibile e mortale violenza” avrebbe distrutto ancora una volta paesaggi, case, vie, piazze e ricordi. Suo marito, ingegnere, originario di Fiastra, emigrato a Roma per lavoro assieme alla propria famiglia, era stato chiamato nel 1997 per “seguire partiche e lavori di ristrutturazione e adeguamento antisismico”.
La decisione di rimanere era stata presa quasi subito. Tutta la testimonianza è un canto ai ricordi, dalla Jeep rossa che trasportava, a marcia ridotta, la statuina della Madonnina in occasione delle Feste Triennali di San Martino di Fiastra, ora semisommersa dal tetto squassato da terremoto, alle passeggiate nei boschi popolati da animali di ogni specie: cinghiali, serpenti, ghiri, istrici, cerbiatti, volpi. Sergio ricorda i soggiorni a San Martino di Fiastra nelle estati degli anni sessanta.
Saverio, anche lui visitatore del luogo, ricorda le interminabili partite a tennis con altri ragazzi della propria età, dopo aver scelto come campo di gioco uno spiazzo attraversato dalle pecore quando rientravano all’ovile. La rete era una lunga corda legata a due lampioni. Bastava poco per divertirsi e tirare fino a sera inoltrata. Correva l’anno 1976. Tutti i ragazzi si sentivano emuli di Adriano Panatta, il campione di tennis di allora.
Elisabetta mette in versi emozioni, sentimenti, paure e angosce annotati nel proprio diario.
Una parte terza del volume raccoglie scritti di Agata, di Cristina e Marina, di Angelo, di Mario, Gabriella e Gianfranco (Brandelli di resilienza, pagg. 107- 133).
Il libro è stato presentato il 23 marzo presso la sala conferenze “Mauro Fratini” della Banca di Credito Cooperativo di Civitanova Marche, il 29 aprile nella sala parrocchiale di Crocette di Castelfidardo, il 30 maggio a Roma, nel Salone dei Piceni del Complesso Monumentale di San Salvatore in Lauro, domenica 19 novembre presso la sala Castellani di Porto San Giorgio. Con l’acquisto del volume si contribuisce alla ricostruzione del cimitero di Fiastra distrutto dal terremoto.
Sono 135 pagine che si leggono con il core in gola e con tanta partecipazione emotiva. •

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