Quelli che considerano le tradizioni una bizzarria, una stranezza, un elemento pittoresco e non una cosa da prendere sul serio. Quelli che confondono il pittoresco con una precisa concezione dell’esistenza che esprime condizioni di vita e di cultura. Quelli che vedono le usanze come vincolo e legame tra generazioni. Quelli che dichiarano apertamente il loro amore per le rievocazioni e cercano in esse i tratti preziosi delle culture passate. E soprattutto quelli, tantissimi, che vogliono riscoprirle per metterne in evidenza il significato storico e il senso attuale, per farle rivivere e tramutare le speranze in certezze di vita.
Ci sono mille modi di vedere una tradizione, tutti derivati dall’esigenza biologica dell’uomo di oggi – dominato dalla globalizzazione e dallo stereotipo – di rifondare la sua esistenza su basi più autentiche. La ricostruzione della memoria di un microcosmo come quello del cantamaggio può aiutare a capire quale rapporto si possa sviluppare con il nostro passato, con la topografia di un territorio che esprime aspettazioni e candidi stupori di fronte alla magia che si rinnova ad ogni stagione: la natura si addormenta e quando è il momento giusto, come per incanto, allo scadere di un’ora, di un minuto, di un secondo, in qualsiasi luogo e a qualsiasi latitudine si risveglia e compie il miracolo. In ogni punto della Terra, ma anche di un semplice vaso sul nostro balcone, spunta una creatura bellissima e colorata, apparentemente uguale a migliaia di altre e tuttavia diversa. Una favola intrigante, una bellezza e una soavità con valenza profonda, il fiore inteso come simbolo di rinascita e di vita, sempiterna tentazione di pittori, musicisti, poeti e maggiaioli. Ecco allora che alla fine dell’Ottocento i membri della Società della fanfara di Ussita e della Società del concerto di Visso decidono di rinverdire le tradizioni pagane vecchie di sei o sette secoli per esprimere speranze di fecondità della terra, ingentilendone i riti e le implicazioni. Dopo aver alzato il solito “arborittu fioritu” simbolo del rinnovarsi della vita e delle stagioni, cominciano a girare per i paesi, scambiando musica e versi coi “sogni de ‘na notte e robba da magnà”. “Vanno le comitive de sta nottata / a cantà maggio là pe’ le stradelle, / cantamo pure nui ‘na maggiolata / tra l’odori che sta’ sotto le stelle. / E cantamo cuscì: fior de mortella / la vita è bella quanno canta amore, / e intonamo cuscì: fratta fiorita / bella è la vita se stornella lu core!”.
Cuore, anima e sentimento cantano nelle canzoni dei maggiaioli dell’alto Nera e di tutta la Valnerina, cantori che la strada consumano e sulla strada si perdono e si ritrovano in un viaggio cominciato sicuramente molto prima che nascessero. “Vanno le comitive per la montagna / co’ li strumenti e co’ li lampioncini, / tra fiori e canti vanno a fa’ sciampagna / sotto le case de li contadini”. L’inesauribile curiosità per la vita li ispira, l’incanto per la bellezza li fa rinascere e tutto termina nei ritornelli impastati di poesia, musica e tradizione, del sangue vivo dell’avventura umana.
“Cantamo vecchi e giovani / che maggio tutti invita / a non pensà a le buggere, / a benedì la vita”. Il maggiaiolo non si prende mai sul serio, ma vive con grande serietà la sua parte, sempre pronto a ritrattare l’ultima conquista con la prossima che sta per cominciare, convinto, senza tema di smentita, che non si vive maggio tutto l’anno. “Io so’ lu maggiarolu strappacori / per me le fije belle vannu matte, / le porto a fa’ l’amore tra li fiori, / me piace da’ li baci sette a sette”. Quando l’amore non gli basta se lo inventa, inseguendo storie e passioni che esplora e descrive. “Io so’ lu maggiarolu strappacori / però me la so’ presa ‘na gran cotta / ho scerdu Lena tra li trenta amori / ma questa porca ‘ddina me dà retta. / A maggio ha dittu te darò l’amore / e mo me dice che devo ‘spettare / perché stu mese mette troppo ardore / cuscì l’amore non me lo fa fare”. Come un rabdomante cerca parole e suoni tra la terra e il suo desiderio d’amore, inseguendoli nel ribollire dei suoi sensi. “Me sento tuttu un fremitu / me sa vado in pazzia / e no’ me desse l’azzicu, / ché fo che fesseria”. A volte si trasforma in un viaggiatore salgariano che strapazza il tempo e le storie, trasformandole nelle invenzioni un po’ equivoche del maggio ussitano.
“Ecco maggio zuru zuru / a lu gattu s’arrizza lu pilu / e la sorca pija vantaggio / fori aprile e dentro maggio”. Nelle serenate di Ponte Chiusita, invece, cammina su un filo sospeso tra ironia e malinconia; il canto ha dentro di sé sipario e palcoscenico, desiderio d’amore e senso mistico. “E’ maggio e le farfalle / vanno de fronda in fronda. / E’ maggio e mo la sera / se prega la Madonna, / te fai pregà tu pure? / Ma lu mese Marianu / Marì, se fa a li santi / no a un core disumanu. / Ah, Marì, perché sonnecchi / mentre tuttu canta amore? / Ma che ci hai dentro lu core, / ma che ci hai se po’ sapé?”.
La voce del maggiaiolo, come un disco, fa rivivere parole e musiche che continueranno a cantare nei cieli che mai conosceremo. Il sentimento dell’animo umano è una pratica che non si archivia, perché vive la dimensione di fermenti che non muoiono, il desiderio di cercare gioia, evasione, forza per affrontare la vita. E quando crederai di averlo ingabbiato quello ti manderà fuori pista, progettando altre evasioni e altri modi di esprimersi, come a Cupi di Visso: “Veniamo a cantà maggio e semo nove / chi canta per l’amore e chi per l’ove, / io per l’amore non voglio cantare / canto per l’ove se me le voi dare”. Sulla strada del cantamaggio non troverete traccia di queste cose, semmai ricordi che la polvere del tempo ha ricoperto di un sottile strato di sensazioni, smarrimenti, ritmi intermittenti, residui di canzoni a cui alzare il calice per un brindisi da condividere con tutti i cuori canterini, le persone senza amore del nostro tempo, i poeti liberi e appassionati, i vecchi convinti che l’illusione è il lusso della gioventù, e tuttavia non ce la fanno a invecchiare e a smettere di illudersi. Eppure erano loro che scuotevano il capo quando anni fa si parlava di riesumare il cantamaggio e adattarlo ai tempi, loro che questa tradizione l’avevano conosciuta da bambini o vissuta come l’epoca la voleva. Oggi il costume popolare dalla quale il cantamaggio discende non ha più radici nella nuova realtà. Non esistono neppure più gli abitanti, i tessuti sociali che di questa tradizione erano gli eredi nell’immediato secondo dopoguerra. Già negli anni Cinquanta Amedeo Gentili, l’ultimo cantastorie vissano, il cantamaggio se lo faceva da solo. Piantava una frasca infiorata in mezzo al paese e si metteva a cantare; la gente si radunava, ascoltava e insieme alle uova, alla pizza, gli offriva da bere. Uno dei suoi stornelli era preveggente: “Se lo mejo viene appresso / grazie a tutto ‘sto progresso / co’ lo maggio che verrà / quante cose d’aggiornà!”. Sulle strade percorse dai maggiaioli ci sono ora i lontani pronipoti con i telefonini ed è già cambiato tutto ciò che naturalmente doveva cambiare. Come pretendere di resuscitare un rito che ha sapore di fiaba? Eppure chissà che tra i tanti cellulari che servono per ascoltare musica e tra le note che escono dai lettori Mp3, ancora una volta non sia presente e compiaciuto lo spirito dei vecchi maggiaioli, fantasmi che tornano vestiti di fiori, non già per impaurire, ma per rammentare che chi ha contribuito a dare gioia e serenità non deve essere dimenticato. Per dirci che loro se la cavavano benissimo anche senza le nostre tecnologie, prima che fossero inventati i telefonini: con le lettere d’amore, i dischi di vinile, la fisarmonica e le serenate. •
Valerio Franconi